La deducibilità degli interessi da ravvedimento per i professionisti: una risposta che solleva più dubbi che certezze
di Simona Baseggio e Barbara Marini
La recente risposta dell’Agenzia delle entrate n. 56 del 3 marzo in tema di deducibilità fiscale degli interessi versati nell’ambito del ravvedimento speciale ai fini della determinazione del reddito di lavoro autonomo, solleva interrogativi di non poco conto. Non tanto per la conclusione raggiunta – che pure meriterebbe un approfondito dibattito – quanto per le motivazioni addotte, che appaiono tutt’altro che coerenti con le precedenti interpretazioni della stessa Amministrazione finanziaria.
Il quesito è stato posto da un libero professionista che, aderendo al ravvedimento speciale introdotto dalla Legge di Bilancio 2023 (articolo 1, commi da 174 a 178, L. n. 197/2022), ha regolarizzato nel 2024 alcune dichiarazioni relative a periodi d’imposta pregressi. Il pagamento ha comportato il versamento di maggiori imposte, sanzioni ridotte e interessi moratori. La questione verte sulla possibilità di dedurre tali interessi dal reddito di lavoro autonomo, in analogia con quanto previsto per i soggetti IRES.
L’istante ha argomentato la propria posizione evidenziando due aspetti fondamentali:
Il principio di deducibilità degli interessi passivi per il ritardato pagamento delle imposte, già riconosciuto per i soggetti IRES (interpelli n. 541/2022 e n. 172/2024), dovrebbe valere anche per i soggetti IRPEF.
In assenza di un’espressa esclusione normativa, gli interessi moratori da ravvedimento speciale dovrebbero rientrare tra i costi deducibili, in base al principio generale della correlazione tra oneri e produzione del reddito.
L’Agenzia delle entrate, con un orientamento in linea con l’ordinanza 28740/2022 della Cassazione, ha negato la deducibilità di tali interessi, basandosi sostanzialmente su tre punti:
Natura degli interessi moratori – Essi sono considerati accessori all’imposta dovuta e, condividendone il trattamento fiscale, risultano quindi indeducibili.
Principio di inerenza – Affinché un costo sia deducibile, deve essere funzionale, anche indirettamente, alla produzione dei compensi che concorrono a formare il reddito. Gli interessi versati per il ritardato pagamento delle imposte non rientrano in questa categoria.
Assenza di disciplina specifica nel Tuir – A differenza degli interessi su finanziamenti per l’attività professionale, quelli legati al ravvedimento non sono riconducibili a spese inerenti l’attività lavorativa.
La scelta interpretativa dell’Agenzia, così come argomentata, desta qualche perplessità. Per giustificare la diversa impostazione della risposta rispetto a quelle passate (con le quali era stata riconosciuta la piena deducibilità dal reddito d’impresa degli interessi passivi pagati in sede di conciliazione o di accertamento con adesione), l’Agenzia individua due elementi distintivi:
La differenza tra interessi da ravvedimento e quelli derivanti da accertamenti con adesione o conciliazioni – Questi ultimi avrebbero una funzione compensativa del ritardo nella riscossione e sarebbero quindi deducibili nel reddito d’impresa, mentre quelli da ravvedimento sarebbero di natura risarcitoria e dunque indeducibili.
La diversa categoria reddituale di riferimento – I precedenti interpelli riguardavano il reddito d’impresa, il che lascerebbe intendere un diverso trattamento rispetto al reddito di lavoro autonomo, anche se non viene chiarito se la natura risarcitoria degli interessi escluda in ogni caso la loro deducibilità.
Secondo tale posizione, quindi, chi regolarizza spontaneamente la propria posizione tramite il ravvedimento speciale o il ravvedimento operoso viene penalizzato rispetto a chi aderisce a una procedura di accertamento con adesione o conciliazione, ossia una situazione in cui il contribuente è stato sottoposto a un controllo da parte dell’Amministrazione.
In altre parole, si riconosce un beneficio fiscale per gli interessi versati a seguito di un accertamento, mentre lo si nega per coloro che, in totale autonomia, scelgono di sanare le proprie pendenze. Non pare davvero che la distinzione tra le due tipologie di interessi sia tale da poter giustificare un diverso trattamento fiscale.
Altrettanto discutibile è la scelta di differenziare in maniera netta la disciplina fiscale del reddito di impresa rispetto a quello professionale, come se il concetto di inerenza si dovesse declinare diversamente a seconda della categoria di reddito interessato. Analogamente all’imprenditore, anche il professionista effettua scelte finanziarie mirate a ottimizzare la gestione della propria attività e, di conseguenza, la capacità di produrre reddito.
Forse sarebbe stato più chiaro rispondere che esiste nel nostro ordinamento una regola generale che identifica il necessario collegamento tra un componente economico e l’attività esercitata, ed è il fondamentale principio di inerenza, valevole sia per le imprese che per i professionisti. Quello che fuoriesce da questo confine risulta non inerente.