La Corte Costituzionale si esprime sul divieto di produzione dei documenti in appello
di Andrea Gaeta e Lorenzo Romano
Con la sentenza n. 36/2025 di oggi, la Corte Costituzionale si è pronunciata sulla legittimità costituzionale dell’articolo 58, comma 3, del Dlgs. n. 546/1992, come introdotto dalla recente riforma del contenzioso tributario, e della relativa norma transitoria.
Il citato terzo comma dell’articolo 58 dispone che «non è mai consentito il deposito delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti, delle notifiche dell'atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi dell'articolo 14 comma 6-bis», norma – quest’ultima – che disciplina il litisconsorzio necessario tra Agente della riscossione ed ente creditore nei processi aventi ad oggetto l’omessa notifica degli atti presupposti.
Il giudizio di legittimità costituzionale era stato promosso dalle CGT di II grado della Campania e della Lombardia, che nutrivano dubbi di compatibilità delle nuove disposizioni con diversi articoli della Costituzione.
Entrambe le corti remittenti hanno ritenuto irragionevole e lesiva del diritto di difesa e del giusto processo che l'impossibilità assoluta di produrre in appello determinati documenti, anche qualora indispensabili o non prodotti in primo grado per causa non imputabile alla parte.
La CGT Campania, inoltre, ha ravvisato una “contraddizione intrinseca” nella previsione dell’articolo 58, in quanto il primo comma riconosce al giudice il potere di ammettere la produzione di nuovi documenti, se indispensabili ai fini della decisione, mentre il comma 3 lo priverebbe di tale potere, in via assoluta («non è mai consentito il deposito…»), ma solo per specifiche tipologie di atti.
Tale restrittiva disciplina (su tale aspetto si è concentrata la CGT della Lombardia) è poi “aggravata” dalla disposizione transitoria, che prevede il divieto di produzione di documenti “non indispensabili”, e comunque il divieto assoluto di cui al terzo comma dell’articolo 58, anche per gli appelli introdotti dal 1° settembre 2024 (anziché per i giudizi introdotti in primo grado da tale data).
La CGT lombarda ha inoltre lamentato un eccesso di delega rispetto alla legge n. 111/2023, che prevedeva solo un "rafforzamento" del divieto di produrre nuovi documenti, e non un divieto assoluto per specifiche categorie. Tale questione – lo si può anticipare in questa sede – è stata rigettata dalla Corte (§ 8.1.1) sulla scorta della considerazione che, in sostanza, l’introduzione del divieto non è estranea al “rafforzamento”, e pertanto costituisce un coerente sviluppo della legge delega.
Respinte tutte le eccezioni preliminari dell’Avvocatura (e in particolare quella secondo cui il terzo comma dell’articolo 58 si sarebbe potuto interpretare nel senso di ammettere, quantomeno nella fase transitoria, la produzione dei documenti ivi previsti, purché “indispensabili”), la Corte Costituzionale ha accolto alcune delle questioni sollevate dalle due CGT.
In primo luogo, la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell’articolo 58, comma 3, d.lgs. n. 546/1992, limitatamente alle parole «delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti», in quanto si tratta di atti che (§ 7.3.2.1) «non costituiscono temi di prova soggetti alle ordinarie preclusioni istruttorie, in quanto non attengono al merito della causa, ma alla legittimazione processuale o alla rappresentanza tecnica». Tale esclusione, secondo la Corte, altera la parità delle armi e comprime ingiustificatamente il diritto alla prova e al contraddittorio.
La soluzione della Corte può destare qualche perplessità nella parte in cui include (§ 7.3.1), tra gli atti non soggetti a preclusioni probatorie, anche le deleghe conferite ai funzionari ai fini della sottoscrizione degli avvisi di accertamento (articolo 42, Dpr n. 600/1973): a ben vedere, tali atti non attengono alla legittimazione processuale, ma alla validità degli avvisi.
Successivamente, la Corte ha respinto i dubbi di costituzionalità in merito al divieto di produzione dei documenti che attestano la regolare notifica dell’atto impugnato o degli atti ad esso presupposti, in quanto si tratta di documenti che «forniscono la prova di una condizione di validità o di efficacia dell’esercizio della funzione impositiva». Per le notifiche, infatti, grava sull’Amministrazione «un dovere qualificato di documentazione del procedimento notificatorio e di conservazione e custodia dei relativi atti», e non è logicamente configurabile l'ignoranza incolpevole o la sopravvenienza della prova della notifica. Analoghe considerazioni, a nostro parere, si sarebbero potute applicare anche alle “deleghe di firma”.
Infine, il Giudice delle leggi si è soffermato sulla disposizione transitoria, dichiarando l'illegittimità costituzionale dell’articolo 4, comma 2, Dlgs. n. 220/2023, nella parte in cui prescrive l'applicazione immediata delle nuove disposizioni ai giudizi di secondo grado instaurati a decorrere dal 5 gennaio 2024, anziché ai giudizi di appello il cui primo grado sia instaurato successivamente all'entrata in vigore del Dlgs. n. 220/2023.
Tale previsione, secondo la Corte, lede il legittimo affidamento che le parti del processo potrebbero aver riposto nella possibilità di produrre documenti in appello secondo le regole previgenti, con la conseguenza che, nei fatti, lo ius superveniens viene a incidere sugli effetti giuridici di situazioni processuali verificatesi nei giudizi già instaurati.
Sul punto, era stata commentata sulle riviste specializzate un’ottimamente argomentata sentenza della CGT di II grado della Campania, la n. 5476/20/2024, che aveva tentato di interpretare la disposizione transitoria in senso conforme alla Costituzione e alla CEDU, pervenendo all’applicabilità delle restrizioni probatorie solo ai nuovi giudizi, e non anche ai nuovi appelli. Evidentemente, la Corte Costituzionale ha ritenuto che non si potesse aderire a un’interpretazione correttiva.
In sintesi, quindi, la Corte ha ritenuto irragionevole e lesivo dei diritti di difesa e del giusto processo il divieto assoluto di produrre in appello deleghe, procure e atti di conferimento di potere, così come l'applicazione immediata della nuova disciplina dell'appello ai giudizi di secondo grado relativi a cause di primo grado iniziate sotto la precedente normativa. Ha invece ritenuto giustificato il divieto di produrre in appello le notifiche degli atti impositivi.