Nel nostro Paese la semplificazione fiscale è un concetto bellissimo, come l’unicorno. Se ne parla con commozione ai convegni, si cita nei comunicati, si accarezza nei titoli dei disegni di legge. Poi qualcuno spegne la luce e, zac, arriva un comma nuovo con il cappotto lungo e l’aria di chi “non voleva disturbare”, ma intanto ha spostato tutte le porte.
Il sistema tributario italiano non è complicato per caso. È complicato con metodo, con una certa cura artigianale, quasi affettuosa. Sembra disegnato come un labirinto in cui la mappa cambia mentre cammini, così puoi sbagliare anche se sei diligente, anche se sei onesto, anche se hai fatto tutto “come dice la norma”. Peccato che la norma, nel frattempo, abbia cambiato lingua, ordine delle parole e magari pure pianeta.
E allora succede questo piccolo miracolo quotidiano. Il contribuente prova a capire, a interpretare, dichiara e versa. Non evade per vocazione, non gioca a nascondino con l’Erario. Semplicemente cade. Cade su un’interpretazione, inciampa su un rinvio, scivola su una definizione che vale “tranne che”, “salvo che”, “fatto salvo”, “per quanto compatibile”, “a decorrere da”, “fino a quando non”. È una grammatica dell’eccezione, un rosario di subordinazioni, una contorta processione lessicale. E quando sbagli, anche senza volerlo, il sistema fiorisce. Germogliano accertamenti e sanzioni come margherite a primavera. Solo che pungono.
C’è una sensazione, sempre più difficile da ignorare, che la complessità non sia un incidente. Che sia un progetto preciso. Perché complicare significa avere leve. Significa poter dire “hai sbagliato” con una facilità disarmante, anche quando il confine tra giusto e sbagliato è una linea tracciata con la matita su un foglio bagnato sotto la pioggia battente della complicazione. Significa trasformare l’errore in materia imponibile emotiva, prima ancora che fiscale. Il timore come aliquota aggiuntiva.
E poi ci sono loro, le rottamazioni. Le chiamiamo con nomi da saga, come se fossero capitoli epici di una redenzione collettiva. In realtà spesso assomigliano a quei cartelli messi dopo una frana. “Strada chiusa per lavori”. Lavori che, guarda caso, diventano eterni.
Perché le rottamazioni, in generale, non sono il pentimento del legislatore. Non sono l’atto contrito di chi dice “scusate, vi abbiamo caricato di sanzioni ipertrofiche e interessi da romanzo gotico”. Sono, più banalmente e più tristemente, la presa d’atto di un limite operativo. La macchina sa infliggere, ma non sempre sa riscuotere. È bravissima a scrivere la condanna, meno a eseguirla e a farla diventare incasso. E allora si torna alla cassa con lo sconto, non per bontà, ma per necessità.
Il paradosso è qui, bello lucido. Si costruisce un sistema che moltiplica l’errore, poi si scopre che l’errore moltiplicato produce cartelle che restano sospese come lampioni spenti. E si rimedia con un’altra norma, un’altra finestra, un’altra definizione agevolata. Il futuro, a questo punto, non è un orizzonte di chiarezza. È un calendario di scadenze che promettono salvezza a rate.
Attenzione però, che non ci scappi la carezza sbagliata. Tutto questo non deve diventare attenuante per chi evade scientemente. L’evasore non è una vittima della sintassi. Chi falsifica, occulta, costruisce frodi, chi fa dell’errore una strategia e non una caduta, non merita alibi poetici. La distinzione è semplice e necessaria, anche se la norma spesso la complica pure lì.
Il punto è un altro, più scomodo. Colpire l’errore incolpevole o comunque non doloso, con la stessa furia con cui si vorrebbe colpire l’evasione strutturata, è una scorciatoia. E le scorciatoie, si sa, finiscono in un dirupo o in un contenzioso. Il sistema che fa dell’interpretazione un campo minato non aumenta la compliance, aumenta la stanchezza. E la stanchezza non paga le imposte, le rimanda. Le imposte rimandate diventano debito. Il debito diventa rottamazione. La rottamazione diventa abitudine. E l’abitudine diventa cultura. Una cultura triste, cinica, perfino razionale.
Semplificare davvero, invece, sarebbe un gesto rivoluzionario e quasi impopolare. Vorrebbe dire togliere al sistema quella rendita da ambiguità che oggi alimenta accertamenti e sanzioni come carburante. Vorrebbe dire puntare su regole leggibili, stabili, coerenti. E quindi su un rapporto adulto con chi paga. Semplificare renderebbe forse persino non necessario il regime dell’adempimento collaborativo o, quanto meno, lo limiterebbe ad ipotesi del tutto residuali.
Nell’attesa, restiamo qui, in questo presepe fiscale permanente, con i pastori che portano documenti, i Re magi che portano interpelli e una stella cometa che è sempre un provvedimento attuativo “in arrivo”. Nel frattempo, il contribuente diligente fa quello che può. Si affida, studia, prova a comprendere. E spera che, nel futuro, qualcuno abbia il coraggio di rendere le regole chiare anche quando non conviene.
Quando la complessità serve a sanzionare, la semplificazione diventa giustizia. E la giustizia, prima o poi, si stancherà di essere un’eccezione, anche se, come cantava Franco Battiato nella canzone “Povera Patria”, “la primavera intanto tarda ad arrivare”.


