C’è un filo rosso che unisce la corruzione e i reati fiscali, gli incidenti sul lavoro, le infiltrazioni negli appalti, fino ai deepfake e all’intelligenza artificiale.
Quel filo si chiama D.Lgs. 231/2001, la norma che – da oltre vent’anni – tiene le aziende italiane sul banco degli imputati e ne scandisce l’evoluzione organizzativa.
All’inizio era solo paura di multe e interdizioni, un incubo burocratico da cui difendersi.
Oggi invece la 231 è diventata il passaporto dell’impresa moderna: se non ce l’hai, o peggio se ce l’hai fatto male, non solo rischi le sanzioni, ma sei fuori da appalti, finanziamenti e dal credito delle banche.
Eppure adottare un modello 231 non significa solo “mettere regole”.
È un percorso che obbliga l’impresa a guardarsi dentro, a capire dove sta il rischio, a scoprire debolezze organizzative. Un po’ come chiamare in azienda Poirot o Miss Marple, per indagare tra uffici e reparti, smascherare procedure opache e caratteri ingombranti. Oppure come sedersi sul lettino di uno “strizza cervelli” d’impresa, per analizzare le personalità delle proprie risorse e capire se davvero il sistema è pronto a prevenire errori, abusi, o peggio reati.
La verità è che la compliance 231 non è più un vincolo esterno, ma una leva interna di valore. È il nuovo specchio in cui l’azienda deve guardarsi per capire se è organizzata, credibile, sostenibile. E proprio da questo cambio di prospettiva nasce un’occasione: trasformare la paura del reato in un capitale di fiducia e competitività.
Dal tribunale al consiglio di amministrazione: 231 pronti, partenza, via…
Quando nacque il D.Lgs. 231/2001, magistrati, polizia giudiziaria e persino molti avvocati d’impresa non sapevano bene come maneggiarlo.
Alcuni ancora oggi ne sottovalutano la portata, ma intanto la 231 è diventata il nuovo paradigma della giustizia italiana: più che condanne da scontare, l’obiettivo sembra essere quello di colpire al portafoglio, incassare sanzioni e commissariare aziende.
Così, in aula penale, la 231 è ormai pane quotidiano:
incidenti mortali in raffineria,
cooperative di comodo per sfruttare manodopera,
grandi brand della moda travolti da filiere opache.
La Cassazione n. 30039/2025 lo ha detto senza giri di parole: il modello 231 non è un manualetto tecnico da scaffale, ma un vero strumento di governance. Se non governa, non serve.
E allora gli Organismi di Vigilanza non possono limitarsi a timbrare carte: devono vigilare attivamente, con evidenze, con controlli tracciati. Perché se manca il controllo, scatta la colpa di organizzazione, quella falla che apre la porta alla responsabilità dell’ente.
E qui sta il paradosso, e insieme la forza della norma: anche il più sfigato penalista, quello che in aula non alza mai la voce, con in mano un modello organizzativo davvero valido e applicato dall’azienda cliente, potrebbe diventare all’improvviso il principe del foro. Perché se il modello è vivo, aggiornato e dimostrabile, è il miglior scudo che un’impresa possa avere contro le contestazioni 231.
Appalti, caporalato e cooperative dietro l’angolo: la cricca della logistica
Dietro i camion che macinano chilometri e i magazzini scintillanti della grande distribuzione, si muove spesso un mondo opaco fatto di potere, affari e politica intrecciati. È la cricca della logistica, dove i buchi contributivi diventano voragini e le frodi IVA assumono proporzioni colossali.
Nelle carte delle procure spuntano storie incredibili: ballerine di night club e prostitute che da un giorno all’altro diventano presidenti di cooperative milionarie; lavoratori appena sbarcati dai barconi trasformati in manager, senza sapere una parola di italiano né cosa significhi un bilancio. Cooperative nate dal nulla, senza macchinari, senza mezzi, ma con commesse gigantesche affidate da colossi della moda e della distribuzione.
Sono i cosiddetti appalti “di comodo”: contratti fittizi per mascherare somministrazione illecita di manodopera, eserciti di lavoratori sfruttati, pagati in nero, senza contributi, senza tutele. Un sistema che arricchisce pochi e scarica i costi sulla collettività.
Ed è qui che il D.Lgs. 231/2001 mostra i denti, affiancato dal Codice Antimafia (articolo 34): amministrazioni giudiziarie, commissariamenti, tribunali che entrano a gamba tesa nelle aziende, le “mettono sotto tutela” e cercano di restituirle al mercato ripulite dalle incrostazioni criminali.
Gli esempi non mancano. Esselunga ha dovuto negoziare con i giudici per sanare pratiche opache nella catena degli appalti. DHL ha regolarizzato più di 1.200 lavoratori e rinnovato i modelli organizzativi per archiviare il procedimento 231.
La regola è chiara: o sistemi i contratti, metti ordine nella filiera e costruisci un modello 231 reale, non di carta, oppure sei fuori gioco. Ma se lo fai, puoi persino salvarti: il procedimento si archivia, il tribunale chiude un occhio, e l’impresa resta sul mercato. Un approccio quasi anglosassone, che premia chi corregge, negozia e previene.
Ambiente e appalti pubblici: game over senza modello
Dal 2023 con il nuovo Codice degli Appalti le regole sono ancora più chiare: se sbagli sull’ambiente, non solo paghi multe, ma rischi di perdere licenze, concessioni, finanziamenti pubblici.
La stazione appaltante può escluderti anche solo se sei indagato per un reato 231 ambientale.
È un cambio di paradigma: la compliance non è più una scelta, è la condizione per sopravvivere sul mercato.
Il futuro è già qui: l’intelligenza artificiale in codice penale
E poi c’è l’ultimo tassello, approvato a settembre 2025: la legge italiana sull’intelligenza artificiale.
Non parliamo più di fantascienza, ma di norme penali concrete:
se usi l’AI per truffe di mercato o manipolare la borsa, le pene salgono fino a 7 anni;
se diffondi deepfake senza consenso, rischi da 1 a 5 anni;
se copi contenuti protetti con l’AI, scatta la violazione del diritto d’autore.
Il messaggio è forte: l’AI è uno strumento straordinario, ma se lo usi per il crimine, paga l’impresa.
E le aziende dovranno aggiornare subito i modelli 231: nuovo risk assessment, nuove procedure, nuovi controlli IT.
La 231 come Champions League dell’impresa
La 231 non è più la catena che ti blocca: è il biglietto per giocare la partita.
E oggi il campo non perdona: ambientale, fiscale, giuslavoristico, digitale… i rischi sono concreti, quotidiani, sotto gli occhi di tutti.
Pensare di affrontarli con l’organizzazione degli anni ’80 o ’90 è come presentarsi in Serie A con il pallone di cuoio e “il libero che spazza via”. Quelle aziende sono destinate a retrocedere nei dilettanti.
Oggi il calcio – come l’impresa – è un’altra cosa: non basta più l’allenatore e i titolari in campo. Ci sono team di 30-40 persone, match analyst, preparatori atletici, psicologi, e soprattutto la tecnologia che monitora ogni parametro: chilometri percorsi, resistenza, velocità, quanta “benzina” hanno i tuoi giocatori… ma anche quanta ne hanno i tuoi avversari.
Così funziona anche la compliance 231: serve una regia, serve un modello organizzativo vivo, servono strumenti tecnologici che leggono dati, anticipano mosse, prevedono rischi. Solo le squadre – pardon, le imprese – che investono in organizzazione, visione e controllo possono puntare alla Champions League del mercato.
Le altre? Destinate a inseguire, arrancare, e giocare nei campionati minori.