Come “nani sulle spalle dei giganti”, principiando dal rigoroso pensiero di Ernst Blumenstein, in uno Stato democratico di diritto, per legittimare l’esercizio della funzione istituzionale tributaria non basta la legge, poiché l’imposta collega (tanto sistematicamente, quanto biunivocamente) la solidarietà nella societas humana con la gestione della res publica, la causa finalis con i principi etici di giustizia fiscale e deontici nell’esercizio del potere tributario.
Su questi temi non di rado si constatano vaghezza, confusione concettuale, arretratezza culturale ed eterogeneità di posizioni dietro cui si celano spesso le ideologie politiche, ciò a testimonianza della perdurante immaturità del diritto tributario italiano, sia scientifico (dottrinale) che istituzionale (legislativo, amministrativo e giurisdizionale), il quale, formato da un’educazione giuridica che riteneva irrilevante l’attenzione per l’atteggiamento personale dell’operatore del diritto e affidava tutto al meccanicismo delle regole normative, continua pacificamente a confondere il diritto con la legislazione, in ciò ricordando l’atteggiamento dei soldati giapponesi rimasti per decenni nella foresta a combattere un nemico invisibile, all’oscuro che la guerra fosse finita, ove l’unica cosa che vi era di pacifico era l’oceano.
Tuttavia è noto, o almeno per un operatore del diritto dovrebbe esserlo, come il positivismo giuridico, rispondendo al contesto politico-sociale dell’età liberale, caratterizzato dal monopolio politico e legislativo della borghesia, sia un retaggio culturale di un’epoca passata, i cui assunti mal si adattano a una società in continua trasformazione, essendo al tempo stesso irrealistici e critici nel loro estremismo ideologico (imperatività, formalismo, statualismo, verticismo, completezza, oggettualismo, avalutatività, asocialità, etc.), dacché la sua inevitabile crisi e l’ineludibile spostamento delle aspettative della certezza giuridica dalla irrealizzabile certezza della legge al livello dei principi e della loro concretizzazione applicativa.
Delle due l’una, non si sfugge (tertium non datur): o il diritto tributario italiano non riesce a crescere, oppure non ha interesse a farlo.
A ogni buon conto l’approccio da adottare, come brillantemente teorizzato in termini generali da Francesco Viola, trascende la miope e illusoria visione del diritto come puramente oggettualistico e avalutativo, ridotto ad un formale sistema positivo chiuso, a mero apparato di dispositivi normativi autoreferenziali o supposti tali, funzionali alla gestione del potere politico che li istituisce e ne dispone, atteso che la cifra autentica del diritto va scoperta e (ri)trovata nelle sue germinali capacità mediative con il mondo della vita (il diritto vivente), nel suo generare riflessive pratiche giuridiche nella realtà della vita sociale (il diritto come pratica giuridica sociale).
In questa prospettiva concettuale ed entro questa cornice metodologica – etica e deontica (il diritto concepito nella sua dimensione esistenziale e sociale), prima ancora che legislativa (il diritto inteso nella sua declinazione istituzionale a servizio dei consociati) – è intuitivo comprendere perché all’autorità, stante la necessità di legittimazione e di controllo, devono essere idealmente riferite le fondamentali esigenze di correttezza, certezza, stabilità dei rapporti e difesa, qui intese nel senso di coerenza, razionalità, ragionevolezza e proporzionalità nella produzione delle norme, di imparzialità e affidabilità nell’esercizio del potere, di prevedibilità dei comportamenti delle istituzioni e di concreto sindacato giurisdizionale dei cittadini contro una supposta disfunzione dell’autorità.
Si tratta di principi concettuali di senso comune, radicati nella società e politicamente neutri, collocati a cardine e architrave del pactum societatis e della certezza (rectius esistenza) dello Stato democratico di diritto, a tutela della fiducia, collaborazione, buona fede, trasparenza e affidamento nel rapporto mutualistico tra autorità e cittadini.
Benché taluni di questi principi fondamentali della legalità dell’assetto sociale siano stati tradotti in norme e così posti all’interno del sistema giuridico positivo, la formulazione legislativa non potrà mai condurre a catturarli e ingabbiarli dentro enunciazioni linguistiche definite. Se i principi fondamentali sono per definizione sottratti al dominio della volontà legislatrice, debbono avere una vita propria, anche quando vengono positivizzati dentro l’ordinamento giuridico statale. È ovvio che, se si perde questa trascendenza dei principi fondamentali rispetto alle loro formulazioni, allora si rinnega lo Stato democratico di diritto e si ricade nel legalismo, che è la nota caratteristica dello Stato totalitario, con grave danno della legalità, qui da intendersi come prassi, nel senso propriamente aristotelico di processo d’azione guidato da principi immanenti in esso e non già estrinseci.
Ciò posto sul piano teorico, il diritto legislativo tributario, nell’inquadrare e precisare giuridicamente le espressioni di capacità economica da assoggettare coercitivamente a tassazione (reddito, consumo, patrimonio e valore aggiunto in senso economico), deve conferire alle regole normative (legal rules) un significato virtuoso alla luce e sotto l’egida dei principi (legal principles) che esprimono le giustificazioni di fondo del sistema (background justifications), componendo un equilibrio riflessivo nel senso teorizzato da Ronald Dworkin, come la grammatica sta al linguaggio e la logica al ragionamento, per dare dignità al potere attraverso il sapere, al di là di una fantomatica onnipotenza legislativa da operetta che rende impossibile al diritto tributario di portare a compimento sé stesso e di raggiungere la massimizzazione della giustizia fiscale.
Nella stessa prospettiva concettuale, l’esercizio del potere di accertamento tributario, onde contrastarne un uso arbitrario, deve sempre essere doveroso e vincolato, limitando la scelta (la volontà) quanto alle soluzioni adottabili e agli interessi tutelabili (il giudizio).
Come insegnavano saggiamente Albert Hensel ed Ezio Vanoni tanti anni fa, «con l’imposizione lo Stato si procura una parte dei mezzi, di cui ha bisogno per sostenere le spese che gli derivano dai suoi compiti. Se per procurarsi questi mezzi effettuasse prelevamenti arbitrari di beni presso persone scelte a caso non si potrebbe parlare di “diritto” tributario. Il diritto di imposta è un diritto di prelevamento disciplinato in base ai principi dello Stato di diritto». Un «peso imposto ai cittadini per qualsiasi abuso della forza pubblica, e che non serva per fini di utilità collettiva (...) sarà taglia, livello, spoglio, ma mai tributo».