L’atto di indirizzo formulato dal Ministero dell’economia e delle finanze (prot. n. 7 del 27 febbraio 2025) in materia di abuso del diritto, si connota per un atteggiamento certamente aperto e sensibile ad una lettura matura e condivisibile dell’articolo 10-bis della L. n. 212/2000.
Non di meno, quella offerta dal Ministero appare una lettura che aggiunge poco.
Indubbiamente, fa piacere vedere finalmente riconosciuti molti concetti ed elaborazioni coltivate dalla dottrina negli ultimi anni. Così, merita certamente un plauso la posizione assunta sul legittimo risparmio di imposta. Si riconosce infatti, espressamente, che è un diritto del contribuente, legittimamente esercitabile, scegliere il percorso e la soluzione più conveniente ai fini fiscali. Il solo risparmio di imposta, di per sé, non può integrare un abuso. Perché si possa parlare di abuso occorre, infatti, che il contribuente abbia conseguito un vantaggio fiscale che, tuttavia, appaia indebito alla stregua della ratio delle norme o dei principi del sistema (se invece l’operazione posta in essere confligge con la lettera della legge, si è fuori dal campo dell’elusione e si entra invece in quello dell’evasione). Conformità alla ratio ed ai principi che, correttamente, deve essere verificata con riguardo all’operazione posta in essere e non con l’alternativa ipotizzata dall’Ufficio.
Il problema, tuttavia, è che queste cose erano abbastanza acquisite, almeno in dottrina, sebbene – è vero – l’Agenzia tendeva spesso a disconoscerle. In questo senso, l’atto di indirizzo è certamente utile e meritevole.
Al contempo, però, dall’atto di indirizzo ci si poteva aspettare di più.
In particolare, quello dove l’atto di indirizzo appare sostanzialmente debole è sul tema, invece centrale, della ratio delle norme. Di fatto non vengono date molte indicazioni su come ricercarla.
La direttiva valorizza molto il criterio dell’interpretazione letterale di cui all’articolo 12 delle Preleggi, dimenticando, tuttavia, che la ratio di una norma non può essere evinta solo dal tenore letterario della stessa, occorrendo piuttosto vagliare la sua collocazione in un sistema di riferimento, di cui vanno considerati, peraltro, anche i cambiamenti succedutesi nel tempo. Lo stesso vale per la volontà del legislatore, che non può essere inchiodata al momento storico di emanazione di una legge, ma occorre necessariamente considerare anche cosa è successo dopo.
Le mancanze di cui si discute risultano con particolare evidenza laddove la direttiva prende posizione su un’ipotesi specifica e concreta: quello della rivalutazione delle partecipazioni con loro successiva rivendita.
Qui il documento, in effetti, si limita a dire cose abbastanza scontate, ossia che la rivalutazione è perfettamente legittima anche se la cessione è fatta ad ex soci (ipotesi di recesso cd. atipico). Ma a parte il fatto che questo era già stato riconosciuto dall’Agenzia in precedenza (Cir. n. 16/E/2005), qui si dimentica completamente di andare a verificare la ratio della norma (L. n. 488/2001).
Perché se lo avesse fatto, avrebbe dovuto riconoscere che, dopo la riforma del 2004, che ha sostanzialmente parificato il trattamento fiscale dei dividendi e dei capital gains, continuare a sostenere che la ratio della norma sia quella di promuovere la circolazione delle partecipazioni appare anacronistico e sbagliato. La verità è che il sistema si è nel tempo evoluto nel senso di ammettere la possibilità di spendere la rivalutazione per tutte le plusvalenze sulle partecipazioni, indipendentemente da come la plusvalenza venga in concreto realizzata. La parificazione di trattamento tra dividendi e capital gains non può condurre a letture differenti.
Insomma, ci si poteva aspettare un maggiore coraggio. Probabilmente gli Uffici diventeranno più rigorosi ed attenti nel contestare l’abuso del diritto, ma sarebbe stato opportuno predisporre una strumentazione ermeneutica più solida.