Jobpocalypse now. Non è un altro film di Francis Ford Coppola, ma la trama riguarda tutti
di Massimo Pezzini
Quando leggo, mi piace perdermi tra le parole.
Non scorro le notizie, ci entro dentro. Mi butto a pesce. Apro finestre dentro finestre, come tante matrioska digitali: ogni link mi porta da un’altra parte, ogni parola mi accende un’altra idea o mi genera il fastidio di non coglierne il senso, a tal punto da spingermi subito a comprenderla.
Non so se sia una cosa bella o brutta, ma devo ammettere che ci convivo piuttosto bene, da sempre. È un piccolo vizio, o forse un modo per ricordarmi che la curiosità deve restare sempre accesa nella testa, un po’ come quelle lampade che portano sul caschetto i minatori. Mi serve a volte per smussare, altre volte per rendere più spigoloso quel che mi sembra, magari con leggerezza, di avere capito, per mettermi alla prova. In fondo lo trovo un navigare sensato nel mare piatto di notizie che sempre più spesso puzzano di copia e incolla.
Per darvi un’idea. Leggevo recentemente che secondo un’analisi, su 900.000 nuove pagine web, quasi il 75 per cento dei contenuti sono scritti interamente o in larga parte dall’AI. Il 75 per cento. Cioè…il 75 per cento!
Ogni giorno si pubblicano oltre 60.000 articoli generati artificialmente nel mondo. C’è chi prevede che entro il 2026 il 90 per cento dei contenuti online sarà “sintetico”, cioè, creato da macchine che scrivono, disegnano e titolano da sole. Dopo il cibo, ci nutriremo anche di contenuti sintetici. E in molti diranno: poco male, non che fino ad ora da quel punto di vista la qualità di contenuti umani sia stata eccelsa.
E allora, forse, perdersi tra le parole, inciampare in un’idea vera o apparente è il mio modo personale per avere un approccio scapigliato alle informazioni. Spesso però, ci casco anche io al trabocchetto delle parole “forti”. E adesso vi racconto perché.
Qualche giorno fa, in uno di questi viaggi senza meta, mi è comparsa davanti una parola che mi ha fatto fermare: jobpocalypse. Boom! Poche storie, ti cattura subito, perché sembra uscite da un film alla Pulp fiction.
“Apocalisse del lavoro.”
Fa scena, suona bene, un po’ esagerata, come tutto quello che oggi ci serve per farci ascoltare, infatti, tanto ha fatto che quella parola mi ha preso. Scopro così che arriva da uno studio del British Standards Institution, riportato dal Guardian, secondo cui un quarto dei dirigenti delle grandi aziende, pensa che le mansioni entry-level potranno essere presto automatizzate. In pratica, l’AI non è più la stagista che fa scansioni e riordina l’archivio ma è già pronta a salire a cavalcioni sulla scrivania, e anzi, della scrivania se ne può addirittura fare a meno.
Eppure, più leggevo, più mi convincevo che la fine del lavoro non c’entra. Perché detta in tutta onestà, pensiamoci bene, e rispondetevi in modo onesto…l’AI ci ruba i lavoro o ci ruba le scuse?
Sì, perché, non possiamo più dire “non ho fatto in tempo”, “non avevo i dati”, “non era il mio compito”. Oppure ancora “ah se qualcuno me lo avesse insegnato, avrei potuto…”.
Perché ora c’è tutto. Dati sempre aggiornati. Qualcuno che ti insegna quello che non sai. Che fa quello che non volevi fare. E non solo non si stanca, ma non si lamenta nemmeno.
È come avere accanto quel collega un po’ precisetti che non dice nulla, e dopo aver snocciolato tutto lo scibile umano, ti mette di fronte alla domanda che tutti cerchiamo di evitare: vuoi aggiungere qualcosa? Ehm. No, a posto così. Grazie. Ma ti può anche insegnare per ore e ore senza lamentarsi.
Io vedo la tecnologia ancora una volta come un megafono, che non cambiare la voce, ma la fa arrivare soltanto più lontano, e purtroppo, la cosa funziona allo stesso se dal megafono si emettono stupidaggini. Da sempre accelera ciò che già c’è. E adesso lo sta facendo meglio, più in fretta, con meno esitazioni, collegando i puntini (o i pattern, come dicono quelli fighi). Un po’ come quella scritta su una felpa che ho visto tempo fa camminando lungo il corso: “Non dico bugie, invento verità.” Ecco, l’AI è un po’ così: non mente, ma a volte, piuttosto di dire che non sa, o non ha capito bene, riscrive la realtà a modo suo. Questo probabilmente, al momento è il più grande pericolo.
E forse anche per questo, mi piace immaginare questa cosa dell’apocalisse delle “prime linee” guardandola da un’altra prospettiva. Magari non sarà un lieto fine, ma non ho mai creduto che il lupo fosse sempre il cattivo nelle favole, forse è solo che non ci stiamo orientando bene nel bosco, perché tutto è ancora piuttosto buio e una bussola che indica un Nord sicuro in tutto questo, ancora non c’è.
Perché in tutta questa storia, c’è un piccolo dettaglio che forse si tende a dimenticare: i ragazzi che oggi si affacciano al lavoro, quelli che per anni abbiamo chiamato “nativi digitali” hanno già superato anche quella fase, e ora sono la prima generazione che ha studiato con l’AI accanto. Non dopo, non invece, ma insieme. Magari hanno imparato a chiedere, a dialogare, a correggere, a sperimentare. E forse hanno già una capacità di dialogo che molti manager ancora oggi non hanno, nella convinzione che “provare ChatGPT” significhi solo digitare “scrivimi un parere sull’IVA”.
Parliamo spesso di ruoli di vertice, di “prime linee” manageriali che mi portano a pensare che forse il futuro non è lì. Che il problema, visto da un altro punto di vista, potrebbe essere che l’AI non toglierà lavoro ai giovani, ma che i giovani dovranno presto insegnare all’AI a chi dovrà valutarli, durante i colloqui di assunzione. Ragazzi che magari sanno già come si lavora con lei.
Magari le “prime linee mancate” non sono i ragazzi che non arriveranno, ma i dirigenti che non cambiano e che prima o poi dovranno fare i conti con le proprie lacune. Lo dico perché mi capita spesso di parlare con imprenditori e manager che, ancora oggi, l’intelligenza artificiale non la toccano nemmeno con un click. Sembra che la usino tutti, vero? E invece no: i dati del mondo reale raccontano un’altra storia, fatta più di curiosità a parole che di sperimentazione vera.
Non vogliatemene, perché mi rendo conto che alcune di queste cose possano sembrare scomode come un paio di scarpe strette appena comprate. Ma ho un po’ il timore che sia arrivato il tempo di smettere di pensare che le nuove leve debbano sempre e solo fare lavori di manovalanza. Funzionava un tempo, ma era un altro mondo. Anche perché la manovalanza intellettuale sta sparendo. E quindi come si fa? Credo che, se il vecchio e il nuovo, invece di pensarsi come il giorno e la notte, riuscissero a incontrarsi al tramonto, potrebbero nascerne cose incredibili. È li in cui i contrasti si sciolgono, e tutto si mescola in una luce nuova. Forse, invece di temere che le nuove leve “non siano pronte”, bisognerebbe solo imparare a mettersi in ascolto. A sintonizzarci.
Come faceva mio nonno quando guardava le partite: teneva la TV a volume zero e ascoltava la radiocronaca. Solo dopo ho capito il perché: la televisione mostrava l’azione e la raccontava in modo blando (tanto la gente la poteva vedere), la radio aveva il compito più arduo di raccontarla a chi non la vedeva. Una mostrava le immagini, l’altra provava a narrarne il senso. Soltanto insieme, amplificavano la storia dando la massima percezione di un’azione o di quel gesto sportivo. Ed è solo l’ennesima conferma, che è sempre nei dettagli che si trovano le differenze.
Le aziende più consapevoli l’hanno già capito: stanno spostando il focus dal taglio dei costi alla costruzione di nuove capacità, non adottano semplicemente strumenti, ma coltivando una cultura.
Una cultura che favorisce quella che si chiama co-intelligenza dove l’obiettivo non è sostituire, ma potenziare. Non voglio immaginare il futuro come un campo di battaglia tra persone e macchine, ma un ecosistema ibrido, in cui i due mondi dovranno imparare a coevolvere. E penso che, se non vogliamo che il nostro paese invecchi più di quanto sia riuscito a fare sino ad oggi, le nuove generazioni avranno un ruolo decisivo. Saranno loro a insegnarci come integrare davvero l’AI nella quotidianità, come usarla in modo creativo, e soprattutto a come mantenere umano un lavoro che diventa sempre più algoritmico.
Forse non è la fine del lavoro. Forse è solo l’inizio di un modo diverso di lavorare — più intelligente, più condiviso, e, se vogliamo dirla tutta… un po’ più umano.
E allora che sbaglino e inciampino qua e là. Difficilmente si faranno male, perché probabilmente sceglieranno strade nuove che oggi, forse, sono proprio quelle, le più sicure. Tanto quelle vecchie le conosciamo già, e non mi pare abbiano fatto faville. Magari sono proprio loro, i nuovi, che possono insegnarci non solo a domare il lupo, ma a camminargli accanto.


