Ci sono notizie che leggi e ti scoppiano in testa come un piccolo ordigno semantico. Non fanno rumore, non creano panico, ma ti restano dentro. Come una domanda sottile, una crepa nel muro delle tue convinzioni.
Una di queste a me è arrivata in questi giorni da Il Post. Riguarda Meta, l’azienda di Zuckerberg, e le cifre astronomiche che sta mettendo sul piatto per reclutare i cosiddetti “super talenti” dell’intelligenza artificiale. Non è uno scoop economico, è una finestra sul futuro. E, spoiler: non riguarda solo i laureati a Stanford o gli ingegneri di Google. Riguarda anche te. E me. E i nostri figli.
I nuovi mercenari del pensiero computazionale
Meta ha creato un laboratorio segreto – il Superintelligence Lab – per raccogliere le menti più brillanti dell’IA generativa. Le sta comprando. Una per una. Sottraendole ai competitor con stipendi che non si possono ignorare: 500.000 dollari l’anno come base, poi equity, bonus d’ingresso, retention bonus. E pacchetti che – in quattro anni – possono arrivare a 280 o 300 milioni di dollari.
Sì, hai letto bene. Più di un attaccante di Serie A, con meno menischi rotti ma lo stesso livello di pressione. Perché se costruisci i nuovi LLM (modelli linguistici di grandi dimensioni), diventi il nucleo strategico della competizione globale. Sei il nuovo oro. E allora vale tutto: libertà assoluta, server illimitati, team dedicati. E un assegno che profuma di leggenda.
La trasformazione del talento in commodity
Ma sotto la superficie scintillante c’è una questione più profonda: cosa succede quando i cervelli diventano asset? Quando il genio non è più un dono da coltivare, ma una merce da capitalizzare? Quando il pensiero creativo si misura in share option e rendimento trimestrale?
Stiamo assistendo alla finanziarizzazione dell’intelligenza umana. I “super talenti” sono valutati come start-up: in base al potenziale di scala, alla rarezza, alla capacità di costruire vantaggi competitivi. Non sono più persone, sono nodi strategici di un’infrastruttura invisibile. E, come ogni asset ad alto rischio, possono bruciare in fretta.
Il valore di chi resta fuori dal giro
Io questa notizia l’ho letta in pigiama. Caffè in mano. Cane acciambellato ai piedi. Ho pensato a me, ai colleghi brillanti e stanchi, alle donne nel tech che arrancano per un contratto decente, ai freelance che rifiutano una carriera corporate per coerenza, ai DPO di provincia che leggono policy mentre fuori il mondo scorre.
Mi sono chiesta: quanto valiamo noi? Noi che abbiamo scelto la libertà (vera o presunta), la fatica, l’ambivalenza. Noi che non firmiamo NDA per i nostri clienti che valgono 300 milioni, ma calcoliamo i nostri margini in un Excel con il commercialista. Noi che non siamo meteore nella storia dell’innovazione, ma puntini fermi che tengono insieme il tessuto dell’etica digitale.
Non è invidia (ok, anche un po’ sì). È lucidità. Perché se per Meta sei un investimento strategico da 300 milioni, ma per una PMI italiana sei solo un costo da abbattere, c’è qualcosa che non torna. E non è solo un tema salariale: è una frattura antropologica.
La corsa che brucia (e logora)
C’è anche un’altra domanda che mi ronza in testa: quanto dura tutto questo? Questi stipendi da supereroi, queste fughe di cervelli, queste guerre di reclutamento tra titani tech… Non rischiano di collassare su sé stesse?
Alcuni di questi super ingegneri già se ne sono andati. Ufficialmente per “nuove sfide”, ufficiosamente per sopravvivenza. Non reggevano il ritmo. Non bastava più il pacchetto da sogno per compensare il logorìo, la disconnessione, il senso di inutilità che ti prende quando ti accorgi che sei diventato un codice fiscale con un badge.
Il burnout nel settore AI è reale. E subdolo. Perché si traveste da prestazione. Ti convince che se stai male è colpa tua, che devi ottimizzare il sonno, migliorare la dieta, aumentare la produttività. Ma forse, semplicemente, stai male perché stai vendendo te stesso in saldo.
Il capitale educativo che non si vede (ma vale)
E allora sposto il fuoco. Penso ai nostri figli. A chi oggi ha otto, dodici, sedici anni. Che crescerà in un mondo dove il talento sarà profilato, estratto, monetizzato come un giacimento di litio. Dove la creatività sarà targettizzata. Dove l’identità sarà un dataset.
Che strumenti gli stiamo dando per affrontare tutto questo? Che visione abbiamo per loro? Gli stiamo insegnando a diventare “utili” o a diventare sé stessi? A essere scelti o a scegliere?
Forse la vera rivoluzione educativa è ricordare loro – e a noi stessi – che non si vive per essere scalabili. Che c’è dignità anche nell’errore, nella lentezza, nella scelta controcorrente. Che il successo non è (solo) il pacchetto retributivo, ma la possibilità di abitare il mondo senza tradirsi.
Una domanda che resta aperta
Se oggi un venticinquenne può valere 300 milioni, quanto vale allora un insegnante che lo ha ispirato? Quanto vale una madre che gli ha detto: “scegli con la tua testa”? Quanto vale un esempio coerente, una scuola che non lo ha formato per il mercato ma per la vita?
Forse il vero capitale da difendere non è il capitale umano, ma il capitale umano non alienato. Quello che resta intero, che sa fermarsi, che dice: no grazie. Non firmo. Non oggi. O almeno, non così.
Perché il futuro non è (solo) nelle mani di chi costruisce l’intelligenza artificiale. Ma di chi coltiva quella naturale, quella imperfetta, fragile, irripetibile. La nostra.