Integrazione della motivazione e obbligo probatorio: la Cassazione alla prova delle recenti riforme
di Andrea Gaeta
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 24342 del 1° settembre 2025, torna sul tema dell’obbligo di motivazione negli avvisi di accertamento, ribadendo, in una vicenda relativa alla stima del valore di un terreno ai fini dell’imposta di registro, l’orientamento secondo il quale è sufficiente che l’Amministrazione Finanziaria enunci il criterio utilizzato per la determinazione del valore, non determinandosi una modifica della motivazione se, in fase contenziosa, si richiama un diverso parametro estimativo a conferma della rettifica.
La vicenda trae origine da una compravendita immobiliare avvenuta nel 2017. L’Ufficio, ritenendo incongruo il prezzo dichiarato nell’atto, 95.000 euro, lo rideterminava in ben 1.328.460 euro, assumendo come base di calcolo valori comunali IMU di riferimento. Il contribuente, acquirente, impugnava l’avviso di rettifica e liquidazione, ottenendo l’annullamento in entrambi i gradi di merito.
Dei quattro motivi di ricorso dell’Amministrazione (uno vertente su un obiter dictum, uno sul “solito” vizio di inesistenza della motivazione, e uno con cui si tentava di ottenere una nuova rivalutazione delle prove invocando il giudicato favorevole ottenuto nei confronti del venditore), è di particolare interesse il quarto, unico ad essere accolto.
Secondo l’Agenzia, i giudici di merito avevano errato nel considerare inammissibile l’argomentazione fondata sul valore del terreno risultante da una successione mortis causa, ritenendola un’integrazione postuma della motivazione. La Cassazione ha accolto la doglianza, osservando che la funzione dell’avviso di accertamento è di delimitare l’oggetto del giudizio, non di cristallizzare in modo immodificabile tutti gli elementi probatori a sostegno della pretesa. Ciò che rileva è l’indicazione del criterio astratto utilizzato per la rettifica, mentre il richiamo ad altri indici valutativi in sede processuale non integra una modifica della motivazione, ma rientra nella fisiologia della dialettica probatoria.
Tale impostazione si innesta in un orientamento ricorrente, che vede l’avviso di accertamento come una provocatio ad opponendum. Lo stesso concetto emerge nella recente Cass. n. 19953/2025, ove si rievoca la metafora dell’accertamento come veicolo di accesso al processo, e in quelle numerosissime pronunce in cui si ribadisce che il processo tributario non è diretto alla mera eliminazione giuridica dell'atto impugnato, ma a una pronuncia di merito, sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente che dell'accertamento dell'ufficio, con la conseguenza che il giudice tributario, ove ritenga invalido l'avviso di accertamento per motivi di ordine sostanziale (e non meramente formali), è tenuto ad esaminare nel merito la pretesa tributaria e a ricondurla, mediante una motivata valutazione sostitutiva, alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte.
Da queste sentenze emerge l’idea di un processo tributario «con due oggetti, o con una cognizione sdoppiata in due tempi, rivolta, dapprima, alla legittimità formale dell’atto, e quindi, superato il primo stadio, all’accertamento del rapporto», quasi che l’avviso di accertamento sia un atto processuale, o un decreto ingiuntivo di cui l’attore-opponente debba dimostrare l’illegittimità (concezione che del resto traspare dalla sentenza impugnata). In questi termini si esprimeva nel lontano 1987 Francesco Tesauro (in Corr. giur. n. 7/1987, 722 ss.), commentando una coppia di sentenze delle Sezioni Unite, e sembra che da allora non sia cambiato nulla.
In effetti, indicare semplicemente il criterio astratto in base al quale è stato rilevato il maggior valore, come afferma la Cassazione, vuol dire (così, ancora, Tesauro) «indicare la premessa giuridica del provvedimento, non motivare in fatto, sul modo in cui concretamente è stato applicato il criterio estimativo legale. L’esigenza della motivazione, invece, investe non soltanto il diritto, ma anche il fatto; è esigenza di conoscenza non solo della legge applicata, ma dell’applicazione che è stata fatta».
Fortunatamente, una parte della giurisprudenza si dimostra molto più rigorosa. Ad esempio, in Cass. n. 2039/2022 si legge che è in contrasto con l’articolo 7 dello Statuto dei diritti del contribuente la «enunciazione di una causa petendi ampiamente integrabile con gli elementi di fatto e probatori della fattispecie concreta in sede di eventuale, successiva, impugnazione giudiziale». Negli stessi termini si veda anche Cass. n. 5669/2023 la quale, forse peccando di ottimismo, ritiene che la tesi del veicolo di accesso sia «ormai definitivamente abbandonata».
In altre sentenze, come la n. 25197/2009, la n. 6014/2020 e la n. 13620/2023, la Cassazione ha inoltre riconosciuto come la motivazione non possa mai basarsi su presupposti contrastanti (lo è, ad esempio, quella che nega la deducibilità di compensi agli amministratori perché relativi a prestazioni soggettivamente inesistenti, non previsti da una delibera e sproporzionati), perché ciò pregiudica irrimediabilmente il diritto di difesa del contribuente.
L’orientamento che impedisce di rimediare nel corso del giudizio all’inadeguatezza della motivazione, o di sostituire “in corsa” i criteri di stima (si veda Cass. 7695/2020, secondo cui rientra tra i poteri del Giudice quello di indicare sua sponte un criterio di ricostruzione dei ricavi di un ristorante diverso da quello usato dall’Ufficio), risulta oggi radicalmente incompatibile con la legge.
Da un lato, infatti, vi è il nuovo comma 1-bis dell’articolo 7 della L n. 212/2000, che ha introdotto il divieto di modificare, integrare o sostituire i fatti e i mezzi di prova posti a fondamento dell’atto se non mediante l’adozione di un nuovo provvedimento.
Dall’altro, vi è l’articolo 7, comma 5-bis, del Dlgs n. 546/1992, che ancora fa fatica a imporsi nella giurisprudenza di legittimità, che impone all’Amministrazione l’onere di provare in giudizio le violazioni contestate, e al Giudice di annullare l’atto se tale prova manca o è contraddittoria o insufficiente.
Viene così inevitabilmente a sfumare quella classica distinzione tra motivazione e prova che ha storicamente giustificato decisioni del tenore di quella in commento.
Non resta, in definitiva, che auspicare un ripensamento dell’indirizzo espresso nell’ordinanza n. 24342/2025, affinché l’obbligo di motivazione non venga degradato a mera formalità, ma torni a svolgere la sua funzione sostanziale di presidio dei diritti di difesa e di effettività del contraddittorio. Solo così si potrà realizzare un equilibrio coerente con i principi costituzionali e con lo Statuto del contribuente.