In ferie da cosa?! Cultura, contesto e la (vera) domanda di Marchionne
di Gabriele Silva
Dopo avere affrontato nell’articolo precedente pubblicato su Blast gli obblighi normativi legati alla fruizione delle ferie – dal termine dei 18 mesi al divieto di monetizzazione, passando per le responsabilità del datore di lavoro – può essere utile accostare a quella prospettiva più tecnica una riflessione diversa: meno giuridica, più sistemica.
Lo spunto arriva da un video ormai virale. Sergio Marchionne, in un’intervista, raccontava di quando, arrivato da Detroit alla sede italiana della Fiat in pieno agosto, trovò tutto l’ufficio deserto. Alla domanda: “dove sono tutti?”, qualcuno rispose: “sono in ferie”. E lui, senza giri di parole: “In ferie da cosa?!”
Una frase tagliente e spiazzante, che ha fatto il giro di giornali, talk show e social network. C’è chi l’ha vista come sintesi perfetta della leadership, e chi l’ha considerata la prova di un certo disprezzo per il tempo umano. Ma qui non si tratta di scegliere tra chi lo esalta e chi lo condanna. Il punto è osservare quella frase nel suo contesto, e domandarsi se – letta con occhi italiani – non sia stata semplicemente una battuta fuori luogo.
Attenzione: nessuno vuole santificare la cultura italiana delle ferie, che può benissimo avere storture, esagerazioni, automatismi. Ma la cultura, prima di essere cambiata, va capita. E soprattutto, va letto il sistema che la genera: un Paese fatto di microimprese, stagionalità, assenza di servizi estivi, reti familiari che reggono tutto a fatica.
Ecco perché – prima ancora di parlare di merito o di colpe – conviene capire da dove nasce questo modello e cosa lo rende così difficile da scardinare.
1. Non sono i dipendenti a scegliere: è il sistema che decide per loro.
Il primo paradosso è proprio questo: in Italia le ferie non sono realmente libere. Sono spesso imposte, collettive, obbligate dalle chiusure aziendali. E questo non sempre fa piacere ai lavoratori, che si trovano a viaggiare nelle due settimane centrali di agosto, in mezzo a code, prezzi esorbitanti e un affollamento che trasforma la vacanza in una corsa a ostacoli. Una settimana in agosto costa il triplo di una settimana a giugno. Ma a giugno non si può. Non si riesce. Non si fa.
2. E se anche si lavorasse ad agosto… dove verrebbero lasciati i figli?
Il secondo nodo è ancora più evidente per chi è genitore. Anche ammesso che un lavoratore voglia tenersi le ferie per un altro periodo dell’anno, ad agosto si ritroverebbe a lavorare in un deserto operativo: scuole chiuse, centri estivi terminati, uffici vuoti e servizi ridotti al minimo. Chi lavora, ad agosto, lo fa senza rete.
Quindi il tema non è se si può lavorare ad agosto. Il tema è: chi lo fa, in che condizioni lo fa? E con quale supporto? Pretendere “flessibilità” in un sistema rigido è un esercizio retorico.
Il cambiamento? Possibile. Ma deve essere collettivo.
Non è impossibile ripensare al modello di ferie italiano. Forse ci sarebbe davvero più benessere se le stesse fossero distribuite in modo più intelligente lungo l’anno, se le aziende potessero organizzarsi con turnazioni e se le scuole e i servizi riuscissero a restare operativi più a lungo. Ma questo non può essere il risultato di una frase ad effetto detta da un manager internazionale che aveva in mente un mondo – e un mercato – totalmente diverso da quello italiano.
Serve un cambiamento culturale. Lento, corale, collettivo. Non una conversione imposta dall’alto.
Conclusione.
“In ferie da cosa?” La risposta, forse, è: in ferie da un sistema costruito così, nel bene e nel male. Cambiarlo si può. Ma serve una visione d’insieme. Serve collaborazione tra imprese, lavoratori, istituzioni. E serve rispetto per il tempo delle persone, che non è mai un tempo sprecato.