Il valore professionale nell’era dei modelli generativi: perché un prompt non ci salverà
di Maria-Benedetta Bisetti
In un’ epoca in cui l’intelligenza artificiale sembra democratizzare ogni mestiere, cresce l’illusione che basti un buon prompt per colmare anni di pratica professionale. Non è così.
Perché il prompt engineering è insufficiente
Negli ultimi tre anni ho insistito su un punto, a volte ho ricevuto aspre critiche: non bisogna usare l’intelligenza artificiale con prompt predefiniti né improvvisarsi “prompt engineer” senza una formazione seria sui modelli.
Lo ribadisco oggi con più forza perché le stesse avvertenze che davo agli inizi non bastano più. Nell’era dei modelli generativi, ciò che distingue un professionista da un semplice utilizzatore non è la capacità di formulare prompt corretti. È la capacità di pensare con precisione e con mestiere.
L’AI non è una protesi professionale che trasforma un utente in un esperto: è un amplificatore.
E, come ogni amplificatore, rende più forti segnali già forti e più deboli segnali già deboli.
Non ti farà diventare fotografo usare Midjourney.
Non trasformerà un geometra in avvocato.
Non renderà me il mio geometra. No.
L’intelligenza artificiale non colma la distanza tra due professioni: la rende visibile.
L’esperimento: uno scrittore e un medico davanti allo stesso modello
Prendiamo un modello generalista (definizione non propriamente corretta) come ChatGPT o Claude e poniamo davanti a esso due persone:
• uno scrittore professionista
• un medico, anche lettrice o lettore appassionato
Diamo loro la stessa richiesta:
Scrivi una storia.
Nessuna traccia. Nessuna struttura. Nessun vincolo.
Chi conosce i modelli sa che un unico prompt raramente basta per ottenere una narrazione complessa.
E sa anche che un prompt di venti pagine non sostituisce la competenza narrativa.
Il risultato è costante: la storia dello scrittore è migliore.
Perché?
Non per via del prompt.
Lo scrittore è un esperto del linguaggio: sa costruire ambientazioni, psicologia, tensione, ritmo. Sa quali elementi servono, sa in che ordine, sa quali effetti vuole ottenere. Comunica tutto questo al modello anche senza esplicitarlo.
Il medico no.
Gli manca l’insieme di euristiche che definiscono il mestiere narrativo.
Non gli manca intelligenza: gli manca la forma mentis del campo.
Ed è proprio qui che la tecnologia mostra i suoi limiti e le sue verità.
Che cosa accade dentro il modello
Quando due utenti diversi scrivono lo stesso prompt, il modello non “vede” la loro professione.
Ma ne deduce la competenza indirettamente.
Analizza:
• la precisione semantica
• la struttura implicita del compito
• le scelte linguistiche
• la coerenza interna della richiesta
E reagisce di conseguenza.
Lo scrittore fornisce un’intenzione narrativa coerente, anche se non la descrive tutta.
Il medico fornisce un’intenzione narrativa più vaga, meno strutturata.
Il modello non crea competenze: le amplifica e le riflette.
Se l’utente ha una visione precisa, il modello la capisce e la rafforza.
Se l’utente non ha una visione precisa, il modello riempie i vuoti con contenuti generici, standardizzati.
In altri termini:
l’AI non è democratica. È moltiplicativa.
Il nuovo paesaggio della seniority
Con l’arrivo dei modelli generativi, le organizzazioni stanno vivendo una trasformazione profonda. Non perché l’AI appiattisca i livelli di competenza, ma perché li polarizza.
Per decenni la seniority è stata costruita su:
• anni di esperienza
• volume di progetti
• capacità esecutiva
• manualità tecnica
Ora questi criteri non bastano più.
Un junior dotato di un buon LLM può produrre in un’ora un documento che dieci anni fa sarebbe sembrato “senior”.
E questo crea un rischio: confondere la qualità dell’output con la qualità del pensiero.
La vera differenza emerge alla prima complessità:
• il junior produce testi puliti ma concettualmente fragili
• il middle accelera ma non sempre regge la profondità
• il senior domina il modello perché domina il contesto
La seniority si è spostata dal fare al sapere interpretare, dal compito alla visione, dall’esecuzione alla diagnosi.
La fine del middle mediocre
La fascia più esposta alla trasformazione non è quella dei junior né quella dei senior.
Sono i middle “di mantenimento”: persone tecnicamente competenti ma prive di strategia o visione.
Prima erano indispensabili: svolgevano compiti che i junior non sapevano ancora affrontare.
Oggi molti di quei compiti vengono svolti più velocemente da un modello.
Il risultato è sociologicamente identico a ogni rivoluzione tecnologica:
gli strati intermedi non specializzati si assottigliano.
Non perché l’AI li sostituisce.
Ma perché li rende superflui nella forma attuale.
I middle eccellenti invece prosperano: diventano moltiplicatori della capacità dei senior.
Per una ridefinizione di competenza
Oggi essere senior significa:
• riconoscere le allucinazioni concettuali
• costruire architetture di prompt, non solo scriverli
• leggere ciò che il modello non dice
• valutare criticamente ciò che “sembra giusto”
• sapere integrare strumenti e persone in un processo coerente
• governare l’automazione, non subirla
La seniority non è più accumulo di anni. È precisione mentale.
L’AI non toglie lavoro. Toglie autoinganni.
Molti stanno scoprendo qualcosa di scomodo:
la loro professionalità era più operativa che concettuale.
E l’AI mette tutto questo in piena luce.
Non sostituisce i professionisti:
sostituisce gli improvvisatori.
Non ruba lavoro:
ruba scuse.
Non appiattisce le competenze:
le fa emergere nella loro verità.
Forse per la prima volta, il valore professionale torna al suo posto:
non dove appare, ma dove significa.
A un certo punto dobbiamo ammetterlo: l’AI non ci sta togliendo il futuro, ci sta togliendo la possibilità di nasconderci. È una rivoluzione che riguarda la trasparenza del pensiero più che la tecnologia. E il suo effetto più profondo non è sui modelli, ma sulle persone.
Lo aveva capito con due secoli di anticipo Arthur Schopenhauer :”Il mondo è la mia rappresentazione.” (Il mondo come volontà e rappresentazione (1818)(Volume I, §1)).
L’AI ci accompagna solo fino al bersaglio che sappiamo vedere.
Il resto rimane — inevitabilmente — nelle mani dell’essere umano.


