Uno dei primi snodi interpretativi da affrontare in materia di trust holding riguarda la sua qualificazione fiscale: ci si deve infatti interrogare se il trust debba essere considerato ente commerciale oppure ente non commerciale.
Nella prassi, la configurazione più ricorrente è quella del trust holding quale ente non commerciale. Tale qualificazione deriva dal ruolo generalmente passivo del trustee, il quale si limita alla detenzione di partecipazioni, senza svolgere attività riconducibili all’esercizio di impresa commerciale. Una simile impostazione trova conferma, sul piano formale, anche nella frequente inclusione, nell’atto istitutivo, della cosiddetta “clausola di disinteresse”, secondo cui: “Il Trustee non è tenuto ad esercitare i diritti di informazione e di controllo spettanti ai soci di una società nella quale abbia una partecipazione, a meno che sia a conoscenza di gravi irregolarità nella gestione.”
Si tratta di una previsione che esclude l’assunzione di funzioni gestionali e direzionali da parte del trustee e che, sul piano sostanziale, rafforza l’impostazione secondo cui il trust, nella sua veste di holding, non svolge attività economica in senso proprio.
Tuttavia, non si può escludere, in linea teorica, la possibilità che un trust holding assuma natura di ente commerciale. In questa ipotesi è generalmente richiesto che il trustee svolga attività che rivelino una concreta ingerenza nella gestione delle partecipate, erogando servizi di natura finanziaria, commerciale o amministrativa. Una parte della dottrina riconosce che anche l’attività di direzione e coordinamento possa costituire un indice in tal senso, ma si registra in proposito un orientamento non univoco: per taluni, infatti, tale attività – in assenza di ulteriori elementi – non è sufficiente a far mutare la qualificazione dell’ente.
Ulteriori spunti interpretativi possono essere tratti dal contiguo dibattito sulla soggettività passiva ai fini IVA delle holding. Le risposte ad interpelli nn. 758/2021 e 529/2022 hanno riconosciuto la soggettività IVA a holding attive, dotate di una propria struttura (con dipendenti) e capaci di fornire servizi alle partecipate. Come noto, ai sensi dell’articolo 4 del Dpr 633/1972, la soggettività IVA del detentore di partecipazioni è subordinata alla presenza di un’organizzazione stabile e all’effettiva prestazione di servizi verso le partecipate.
L’interesse per una possibile qualificazione del trust holding come ente commerciale è comprensibile: tale configurazione consentirebbe di beneficiare dell’esenzione del 95 per cento su dividendi e plusvalenze prevista dagli articoli 87 e 89 del Tuir. In aggiunta, nei trust opachi, l’attribuzione dei redditi ai beneficiari non comporta tassazione in capo a questi ultimi, come ribadito dalla circolare n. 48/E del 2007.
Il vantaggio fiscale è dunque evidente: nel caso del trust holding commerciale, la tassazione complessiva – considerando l’esenzione del 95 per cento e la mancata ulteriore imposizione in capo ai beneficiari – può ridursi a una percentuale pari all’1,2 per cento.
Diversa è la situazione nel caso di trust holding non commerciale: qui i dividendi subiscono tassazione IRES del 24 per cento sul 100 per cento del loro ammontare (o sul 77,74 per cento se maturati fino al 2016), mentre le plusvalenze sono soggette a imposta sostitutiva del 26 per cento, da liquidare nel quadro RT, come per le persone fisiche. Si tratta di una tassazione coerente con il sistema.
Quello che invece appare incoerente, come visto sopra, è il vantaggio fiscale che deriverebbe dalla qualificazione del trust holding come ente commerciale. Proprio per evitare tale distorsione, l’Agenzia delle Entrate, con la circolare n. 34/E del 2022, ha “risolto” il problema invocando presunte ragioni di ordine logico-sistematico, prevedendo che l’attribuzione dei redditi ai beneficiari da parte del trust ente commerciale opaco sia comunque assoggettata a ritenuta del 26 per cento, mediante assimilazione alla distribuzione di utili. Si tratta di una soluzione che però non convince del tutto. L’impressione è che l’Amministrazione fiscale intenda scoraggiare la qualificazione del trust holding come ente commerciale. L’ufficio, verosimilmente, eviterà di entrare nel merito della reale natura dell’ente – terreno, peraltro, scivoloso – e applicherà tout court la ritenuta del 26 per cento alle attribuzioni di reddito.