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"Il test Voight-Kampff aziendale" - SPECCHI DIGITALI – RACCONTI E RIFLESSIONI SULL’UMANITÀ RIFLESSA NELLE SUE MACCHINE

di Gabriele Silva

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Blast
ott 25, 2025
∙ A pagamento

«Com’è tenere la mano di qualcuno che ami?»

Questa è una delle frasi pronunciate nel test Voight-Kampff, il famigerato esame psicologico che in Blade Runner 2049 serve a distinguere gli umani dai replicanti.
Non misura competenze tecniche. Non valuta esperienze pregresse.
Cerca empatia, incertezza, esitazione. Cerca il punto in cui l’umano smette di funzionare come una macchina.

Oggi, in molti colloqui di lavoro, si fa esattamente il contrario.

Negli ultimi anni abbiamo visto moltiplicarsi strumenti di valutazione digitale delle competenze: test attitudinali, assesment a risposta multipla, video-interviste analizzate da intelligenze artificiali.
In teoria, dovrebbero misurare capacità trasversali come problem solving, team working, comunicazione e leadership.
In pratica, spesso finiscono per premiare chi sa rispondere secondo schema.

Ci chiedono di essere autentici, ma in un tempo massimo di 90 secondi.
Ci valutano per la spontaneità, ma davanti a una webcam con sfondo neutro.
Ci dicono “non esistono risposte giuste o sbagliate”, ma poi assegnano un punteggio.

È davvero questo il modo migliore per capire chi abbiamo di fronte?

Nel film di Villeneuve, il protagonista K – interpretato da Ryan Gosling – è un replicante di nuova generazione. Obbedisce agli ordini. È controllato regolarmente con un test di stabilità emotiva.
Ogni giorno deve rispondere a un check-up psicologico che verifica la sua coerenza, la sua fedeltà, la sua neutralità.

Ma il problema non è il test.
È che nessuno, a parte lui, sembra porsi la domanda più importante: cosa ci dice davvero un test sulla natura di chi abbiamo davanti?

Nel mondo del lavoro di oggi, la competenza è sempre più difficile da misurare.
Non basta più il curriculum. Non basta l’esperienza. Non bastano neppure i risultati.

Ciò che conta – dicono – è l’attitudine.
Ma come si misura un’attitudine?

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