Viviamo in un mondo iper-tecnologico, complesso e pieno di regole che non sempre riescono a tenere il passo con i vorticosi cambiamenti che lo caratterizzano. E, al crescere della complessità e della velocità del cambiamento, aumenta il senso di incertezza e di impossibilità di avere il controllo della situazione. Tuttavia, nonostante secoli di evoluzione, è proprio il bisogno di certezza ad essere alla base di tutte le attività dedicate a misurare, regolamentare e, forse, prevedere la realtà che ci circonda, diventando un obiettivo mitologico quanto il sacro Graal del ciclo arturiano.
Sin dalla notte dei tempi l’essere umano agogna alla certezza. Nei secoli scorsi questo significava soprattutto cibo, riparo e assenza di pericoli mortali. Oggi, questo bisogno non riguarda più solo la mera sopravvivenza, ma, in modo più esteso, il desiderio di poter prevedere e controllare tutti i rischi sociali ed economici.
Per le imprese, questa ricerca di certezza si traduce in un costante tentativo di anticipare e mitigare qualsiasi rischio, interno ed esterno, ivi compreso quello di non rispettare compiutamente le normative vigenti, che siano civili, penali o fiscali. In particolare per queste ultime, il timore di controlli, sanzioni e danni reputazioni impegna le imprese in numerose attività, che vanno dalla mappatura dei processi all’identificazione di tutti i possibili rischi, fino all’individuazione dei controlli ritenuti più idonei a mitigarli o, ancor meglio, azzerarli per quanto possibile.
Queste attività, nel tempo, si sono sempre più proceduralizzate e regolamentate e anche la Pubblica Amministrazione ne ha riconosciuto il valore, mentre maturava la consapevolezza che la certezza della norma fosse non solo un bisogno “emotivo”, ma una necessità imprenditoriale, la cui mancanza poteva avere costi economicamente rilevanti. Sul piano fiscale si pensi, ad esempio, al rischio di non interpretare correttamente una norma o un adempimento. Un errore, per quanto involontario, potrebbe comportare, anche con anni di ritardo, danni economici e reputazionali che oggi le aziende non vogliono o non possono più sostenere, se vogliono restare competitive. Per questo chiedono giustamente al legislatore (prima) e all’Amministrazione (poi) di avere la certezza sugli obblighi e sui diritti fissati dalla norma, per poter operare e investire in sicurezza senza la spada di Damocle di controlli futuri dall’esito incerto.
In questa direzione, 10 anni fa, nel nostro sistema tributario venne introdotto il Regime Adempimento Collaborativo, con il decreto legislativo 128 del 5 agosto 2015, rubricato proprio “Disposizioni sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente”. Tale regime, inizialmente riservato alle società di grandissime dimensioni e progressivamente esteso a una vasta platea, proponeva l’adozione di un sistema di controllo interno del rischio fiscale e l’adozione di strumenti, progressivamente sempre più codificati, che avrebbero consentito, a fronte della validazione dell’Amministrazione, di ottenere la certezza fiscale in cambio della totale trasparenza dei processi di controllo interno posti a presidio dei rischi fiscali, con il riconoscimento di crescenti effetti premiali.
La logica, a suo modo rivoluzionaria, era quella di attribuire un valore oggettivo ai costi sostenuti dalle imprese per adempiere correttamente gli obblighi fiscali e tributari. Costi derivanti dalle attività di analisi dei processi e dei rischi sottostanti, di sviluppo e mantenimento di un sistema di controlli e di una costante attività di monitoraggio, aggiornamento e auto-verifica, che, in quanto onerosi in termini di tempo e denaro, oltre ad essere efficaci internamente, meritavano un riconoscimento esterno, con effetti premiali concreti in caso di errori o di divergenza tra impresa e Fisco in termini di interpretazione normativa.
In questa decade il modello si è evoluto, sviluppando, nell’ambito del Tax Control Framework, un modello “matematico” di gestione del rischio fiscale, con l’implementazione di una Matrice dei Rischi e dei Controlli fiscali. Un connubio tra giurisprudenza e matematica basato sull’idea di poter trasferire la logica e la certezza della matematica nel mondo, per sua natura più fluido e a tratti caotico, del diritto tributario, che avrebbe sicuramente reso felice Leibniz.
Dopo 10 anni di sperimentazione e analisi con le oltre 100 società che hanno sviluppato in autonomia il proprio modello di gestione del rischio fiscale in sede di ammissione, il legislatore ha riformato il regime e ha sostituito il modello aperto, costruito da zero da ogni società e soggetto a un vaglio ex post dell’Amministrazione, con un modello standardizzato, che, sebbene da personalizzare, persegue l’obiettivo di garantire una maggior certezza preventiva sui requisiti minimi del modello stesso, in modo da agevolare le imprese nella sua implementazione e nel successivo mantenimento.
Nella mente del legislatore un modello “matematico”, sviluppato sulle best practice e sull’esperienza acquisita in questa prima decade, faciliterà le imprese interessate ad un rapporto con il Fisco basato sulla trasparenza offerta in cambio dell’ottenimento di un grado di certezza significativo sia in termini di presidio dei rischi adempimento, legati alle procedure e ai processi aziendali, che del più temuto rischio interpretativo, potenzialmente più impattante a causa della complessità e della stratificata evoluzione del sistema tributario domestico e internazionale.
È quindi legittimo chiedersi: nel 2025, grazie a questi nuovi strumenti, la certezza fiscale è davvero a portata di mano? Basterà una tabella in excel, magari gestita da software e AI, per escludere a priori qualsiasi errore relativo a un adempimento? Sarà sufficiente registrare, catalogare e documentare tutte le analisi e i controlli effettuati per vedere il rischio azzerato?
Per come si è evoluto il nostro cervello la risposta sarebbe positiva, proprio per il bisogno di controllo e di certezza che ha consentito alla specie umana di sopravvivere fino ad oggi. Siamo programmati per pensare: c’è un rischio, mi attivo in modo logico e razionale e lo evito, in un processo lineare e dall’esito certo. Purtroppo, però, la realtà è diversa: per quanto ci si possa impegnare, l’errore umano, l’evento imprevedibile o, banalmente, tutto quanto esula dal nostro controllo, può portare a esiti ben diversi da quelli pianificati o desiderati. Pur nella perfetta buonafede di entrambe le parti.
Tutto inutile quindi? La complessità del sistema in cui operiamo impedisce di ottenere il grado di certezza indispensabile ad operare in sicurezza? Ovviamente no, altrimenti la nostra società sarebbe fallita da un pezzo.
Il punto sta nel trovare un equilibrio tra il desiderio di certezza assoluta che solletica il nostro lato emotivo, la consapevolezza che non sia possibile controllare tutto e la necessità di imparare a navigare la complessità e, in un certo senso, accogliere un certo grado di incertezza come elemento naturale della nostra esistenza, anche sul piano professionale.
Alla fine, più che il sacro Graal della certezza fiscale, forse dovremmo cercare la bussola per navigare l’incertezza. Gli strumenti per ridurre i rischi ci sono, e sono validi: trasparenza, struttura, interlocuzione costante, non sono formalità, ma prove tangibili che il rischio si può presidiare in modo efficace. Ma non assoluto. Su questo punto si sviluppa l’odierno dibattito tra Fisco e imprese. Ne parliamo giovedì a Bologna?