Il 15 luglio 2024, il dottor Arturo Mezzaluna - commercialista da 25 campagne dichiarative e una gastrite cronica da falso contraddittorio preventivo - non aderì al Concordato preventivo biennale (in questo momento percepisco che i lettori stanno pensando che per brevità sarebbe meglio utilizzare l’acronimo. Mi adeguerò). Mezzaluna non aderì, ma non per ostilità ideologica, né per ignoranza. Semplicemente non se la sentiva.
«Dominus, i calcoli dicono che conviene!» gli aveva sussurrato il giovane praticante, bardato con tre fogli excel, un piede fasciato da un provvedimento, l’altro dalle specifiche tecniche e in mano una proiezione di marginalità. Arturo, il dominus, aveva scosso il capo: «Troppo bello per essere vero. E troppo digitale per essere umano». Si versò una camomilla. E si mise in ascolto.
All’inizio fu tutto silenzio. Poi arrivarono le prime voci: “Il CPB ti toglie l’ansia!”, “Niente accertamenti per due anni!”, “Imposte leggere e poi solo tramonti!”.
Arturo cominciò a sentirsi come l’unico invitato che aveva detto “no” al buffet gratuito, convinto fosse avariato. I clienti iniziarono a fargli domande ambigue: «Ma se avessimo aderito, oggi saremmo stati più tranquilli?», oppure «Quindi ci aspettano due anni di sorprese?». E lui, ogni volta: «Meglio sapere di dover lottare che fingere di aver vinto».
Arrivò ottobre 2024. I concordatari sorridevano come neofiti della salvezza fiscale. Postavano sui social affermazioni tipo: “Due anni senza ansie. Grazie CPB!”, “Mi ravvedo specialmente, ergo sum”, tutte accompagnate dall’hashtag #pacefiscaleinteriore. Arturo prese un Maalox. Iniziò a dormire con i manuali di diritto tributario sotto il cuscino.
A febbraio 2025, l’Agenzia lanciò la seconda tornata del CPB per gli anni 2025-2026. Il commercialista, in uno slancio quasi evangelico, aprì il portale. Avviò la simulazione. Ma il software lo avvertì con una scritta lampeggiante: “La sua affidabilità fiscale storica non consente una proposta favorevole. Si consiglia prudenza e tanta introspezione”. Arturo spense il computer. Fissò il vuoto. Poi chiamò il suo vecchio cliente, il signor Todorov: «Le dissi di non aderire, sì. Avevamo ragione… ma il sistema ha deciso che la ragione, da sola, non basta più».
Primavera 2025. Nuove dichiarazioni. Nuove incertezze. Arturo assisteva alle consulenze motivazionali dei colleghi concordatari: “Tranquillo, tanto ho il CPB”, “Anche se sbaglio, sono coperto”, “Mi sento… come dire… profilato e protetto”.
Nel frattempo, chi non aveva aderito vagava tra le FAQ dell’Agenzia delle entrate, una “selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura”, alla disperata ricerca di una risposta che non rimandasse a un’altra FAQ più vaga della precedente o che i dubbi non fossero alimentati da interpretazioni stravaganti e infondate. Una sera, tornando a casa, Arturo accese la radio.
Era sintonizzata su un’emittente locale. Una voce carismatica, d’altri tempi (quasi medioevale), intonava: “Per ogni matematico / che non si è mai pentito / d'aver sbagliato un calcolo / ch'è già grave di per sé / rimane un senso logico / che a me non è servito / adesso che / nel tre più tre / so cosa sei per me”. Era quel fantastico menestrello di Angelo Branduardi. Arturo si fermò. Si tolse le scarpe. Rimase seduto al buio. Pensò a tutti i suoi fogli di calcolo, ai modelli ISA, ai profili di affidabilità. E si chiese se anche per il commercialista ci fosse spazio per un vero sogno pitagorico che non comportasse necessariamente delusioni. La canzone finì. Il silenzio tornò. Arturo ripensò al CPB come a una formula incapace di contenere la fragilità vera di chi lavora, calcola, spera. Nella sua testa passò un treno carico di algoritmi: “Ogni algoritmo fiscale - pensò - dovrebbe essere riletto da qualcuno che sappia ancora distinguere i numeri dalle persone”.
A giugno 2025, Arturo ricevette una cartolina. Era di un suo ex cliente, passato a un collega “concordatista militante”. Si chiamava Caverna, di cognome. Arturo lo aveva sempre trovato un tipo schivo, uno che preferiva stare nella penombra delle semplificazioni. Diceva spesso: «Io non voglio sapere cosa pago. Mi basta solo che sia approvato dalla luce esterna». Sulla cartolina, con la grafia precisa di un uomo rappacificato con sé stesso e, soprattutto, con il fisco, era riportato: “Caro Arturo, sono in vacanza. Ho già versato tutto. L’Agenzia sa che sono bravo e obbediente. A te auguro… buon lavoro!”.
In quel groviglio di giorni e di scadenze, tra sussurri e documenti ufficiali, iniziò a circolare un nuovo adagio ministeriale: “Chi concorda campa sereno. Chi non concorda si prepari a dimostrare che è ancora vivo”. L’Agenzia non minacciava, certo. Ma suggeriva con finezza che il contribuente non aderente sarebbe stato oggetto di prioritaria attenzione educativa, una forma garbata di “sorveglianza affettuosa”.
Arturo, leggendo questa massima, annotò sul margine di un foglio: “Una scelta libera è tale solo se chi la compie non si sente già colpevole”. E mentre tutti festeggiavano la tregua fiscale, lui compilava, rigo per rigo, i sempre più complicati campi della dichiarazione dei redditi.
Senza certezze. Ma con tanta dignità.