Il reato di indebita compensazione ed il ruolo del commercialista: necessario l’effettivo contributo causale alla realizzazione dell'illecito
di Lorenzo Romano
Con sentenza n. 16532 del 5 maggio 2025, la Cassazione si è pronunciata sul ruolo del commercialista (ovvero sul concorso di questi) nell’ipotesi di reato di indebita compensazione previsto dall'articolo 10-quater del Decreto Legislativo n. 74/2000.
Nel caso specifico, la commercialista era stata ritenuta responsabile (dal Tribunale e dalla Corte di appello) di quattro violazioni, avendo costei, quale commercialista revisore contabile, certificato crediti R&S inesistenti utilizzati in compensazione, in concorso con i componenti del Consiglio di amministrazione delle società clienti.
Preliminarmente, la Suprema Corte ha ricordato che il reato di indebita compensazione, che si perfeziona nel momento in cui viene presentato all'Amministrazione erariale il modello di versamento unificato F24 contenente la compensazione, prevede due distinte ipotesi di reato (disciplinate rispettivamente dal primo e dal secondo comma), a seconda della natura dei crediti (inesistenti o non spettanti) utilizzati per compensare i debiti fiscali e contributivi, oltre alla soglia di punibilità di euro 50.000.
Va evidenziato che la distinzione tra crediti "non spettanti" e "inesistenti" (definita in sede di riforma dall’articolo 1 lett. g-quater e g-quinquies del medesimo Dlgs 74/2000) è cruciale, in quanto comporta una differente risposta sanzionatoria da parte dell'ordinamento giuridico.
In relazione all'indebita compensazione di crediti d'imposta, inclusi quelli per R&S, può porsi (come nel caso in esame) anche la questione della responsabilità di eventuali professionisti (commercialisti, consulenti fiscali, revisori legali) che abbiano assistito il contribuente (autore del reato proprio) nella predisposizione della documentazione o nella materiale esecuzione della compensazione.
La Corte di Cassazione ha avuto modo di precisare i limiti della responsabilità del professionista in questi casi, sottolineando che è necessario accertare un effettivo contributo causale alla realizzazione dell'illecito tributario e la consapevolezza e volontà di partecipare alla frode. Non è sufficiente una mera negligenza o un adempimento infedele degli obblighi professionali: è necessario che l'apporto del professionista sia caratterizzato da dolo specifico finalizzato all'evasione fiscale.
In questo contesto, i princìpi del "concorso di persone nel reato" (articolo 110 del Codice Penale) trovano piena applicazione, distinguendosi tra "concorso materiale" (partecipazione alla fase esecutiva del reato; id est la compilazione e/o trasmissione del Modello F24) e "concorso morale" (impulso psicologico o istigazione alla commissione del reato).
Anche un soggetto esterno all'azienda (extraneus), come un professionista, può quindi concorrere nel reato tributario commesso dall'azienda (intraneus), purché il suo contributo sia causalmente rilevante (cosiddetto criterio dell’efficienza causale) nella lesione del bene protetto e sorretto dalla necessaria volontà criminosa (dolo specifico).
Nel caso in esame, la ricorrente aveva assunto la responsabilità di attestare l'effettività dei costi sostenuti dalle società clienti per attività di ricerca e sviluppo, nonché di supervisionare la predisposizione della documentazione contabile, attraverso una attività di audit: detta attività sarebbe però intervenuta in una fase successiva alla consumazione dei reati (ovvero dopo la presentazione dei modelli F24).
La questione centrale all’esame della Suprema Corte era stabilire se “l'attività certificatoria di regolarità contabile era necessaria per poter beneficiare del credito di imposta”, ovvero se il contributo concorsuale della professionista è integrato (come sostenuto dai Giudici di merito) “dall’attività certificatoria di regolarità contabile, quale presupposto normativo necessario per l'utilizzo dei crediti di imposta in compensazione e dalla consapevolezza di certificare una regolarità contabile inesistente al fine di utilizzare in compensazione crediti di imposta inesistenti, consapevolezza desumibile dal numero e dalla consistenza delle lacune documentali, nonché dagli errori riscontrati nelle attestazioni”.
Nell’accogliere il ricorso della commercialista, i Giudici di legittimità hanno comunque rinviato alla Corte d’appello, chiedendole di chiarire se “la condotta della ricorrente era finalizzata ad aiutare gli autori materiali del reato ad eludere le verifiche da parte dell'Agenzia delle Entrate”, atteso che nei precedenti gradi di merito era emerso (in maniera contraddittoria) che “tutti i crediti di ricerca e sviluppo sono stati certificati a posteriori e che le attestazioni della ricorrente non si sono nemmeno coordinate …, tanto da non essere realizzate in logica successione” e che non era chiaro in cosa fosse consistita l’attività di audit (della commercialista) e di predisposizione della documentazione contabile.
È così evidente che le attenzioni che richiede l’attività di certificazione (o anche la semplice trasmissione di un modello F24) costituiscono l’ennesimo banco di prova della responsabilità professionale.