Ogni professionista di successo inizia la propria carriera come “giocatore”: entra in campo, affronta le sfide in prima persona, conquista la fiducia dei clienti con la competenza tecnica, la dedizione e il sacrificio. Tuttavia, quando lo studio cresce e si popola di collaboratori, praticanti e specialisti, il professionista è chiamato a una metamorfosi profonda: smettere di giocare ogni partita e diventare l’allenatore della propria squadra.
È una transizione tutt’altro che naturale. Abbandonare la centralità operativa per assumere un ruolo di guida strategica richiede la rinuncia a un’identità costruita nel tempo — quella del “migliore in campo” — per assumerne una nuova, fatta di osservazione, coordinamento e sviluppo degli altri.
Nel mondo dello sport, anche il campione più dotato non vince da solo. Serve una squadra coesa, con ruoli chiari, strategie condivise e un leader capace di far emergere il meglio da ciascuno. Lo stesso vale per uno studio professionale: il successo non dipende più solo dalla bravura del titolare, ma dalla qualità complessiva del lavoro di gruppo.
Essere allenatore significa sapere leggere le persone, motivarle, distribuire i carichi di lavoro in base alle competenze e costruire un contesto dove ognuno possa crescere. È un cambio di paradigma: non più “faccio tutto meglio io”, ma “faccio in modo che tutti possano dare il meglio”.
Il professionista che guida un team deve quindi imparare a esercitare una leadership che non si fonda sull’autorità, ma sull’autorevolezza. Deve sapere ascoltare, comunicare obiettivi chiari, accettare errori come parte del percorso di apprendimento.
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