Perché sempre più italiani mangiano a casa? Complice il periodo natalizio ormai alle porte, si moltiplicano immagini social e pubblicità che vedono protagoniste famiglie riunite intorno alla tavola imbandita o in salotto, magari sul divano avvolti nel plaid e con i bambini che giocano tranquillamente sul tappeto. Eat at home economy, l’ha definita il Financial Times, ovvero la tendenza a restare sempre più frequentemente in casa a pranzo o a cena, non necessariamente per cucinare o risparmiare, per stile di vita o motivi di salute, ma per il semplice gusto di farlo (e la sempre più flebile voglia di uscire).
Il punto è che queste realtà non si limitano solo alle festività più attese dell’anno (si sa che il Natale è una festa da trascorrere “in famiglia”) ma diventano vere e proprie nuove abitudini, ormai diffuse nel corso di tutto l’anno.
Certo è che guadagni stagnanti e rincari del costo della vita non aiutano ma, al di là delle ristrettezze economiche, sembrerebbe esserci il segnale di qualcosa di più profondo. Anche perché il cibo pronto funziona e il delivery direttamente al proprio domicilio è un business in piena crescita. Negli ultimi anni in Italia, il mercato del food delivery è cresciuto in modo costante, fino a valere diversi miliardi di euro, e le previsioni lo danno ancora in salita.
Pizzerie da asporto, ordini drive al volo e tutto ciò che è già pensato per arrivare fino al divano sono perfettamente allineati a questo nuovo scenario. Il punto, quindi, non è che il cibo preparato da altri sia in crisi ma è proprio il ristorante o pizzeria di turno a non affascinare più, mentre spopolano ovunque meal kit di ogni genere. Queste confezioni contengono già tutti gli ingredienti necessari per preparare una ricetta, non precotti e già dosati, così da non rinunciare al gusto di cucinare ma senza dover pensare alla lista della spesa o a quello che manca in frigo o dispensa. In questo modo, la cena è pronta velocemente e senza sprechi.
E poi cenare fuori significa quasi sempre aperitivo in attesa che tutti arrivino, coperto e servizio nel conto, spostamenti in città, parcheggio a pagamento. A questo si aggiunge il costo degli alcolici aumentato a dismisura. Per chi è amante di una birra o un calice di vino da degustare al momento dei pasti, l’esperienza fuori casa è ormai proibitiva, sia per il prezzo di una bottiglia al tavolo sia per le restrizioni di legge, se dopo ci si mette al volante.
Il prezzo conta dunque ma non è tutto. Proprio perché molto spesso, a conti fatti, il risparmio tra le mura domestiche non sempre è garantito, soprattutto se si tratta di cene una tantum tra amici o rimpatriate durante le festività (e non quindi di pause pranzo quotidiane, per cui ormai la “schiscetta” è diventata un must, sia per una questione di budget che di salute). A vincere la partita “in casa” ci sono quindi altri fattori come orari flessibili, vestiti comodi, programmi tv preferiti, amici selezionati, zero attese, zero performance sociale.
La domanda a cui provare a dare una risposta, a questo punto, è: se posso avere tutto dove sto, perché dovrei muovermi?
Perché il cibo non è più un motivo sufficiente per uscire fuori di casa. Lo è “vivere” l’esperienza, la cura, l’atmosfera, l’evento speciale in compagnia. I locali che funzionano non vendono piatti: vendono senso. Quindi se un locale riceve ordini per il proprio cibo d’asporto ma ha i tavoli vuoti, dovrebbe forse smettere di chiedersi cosa mettere nel piatto e iniziare a chiedersi perché qualcuno dovrebbe uscire di casa per mangiarlo lì in sala.
La casa è il nuovo hub della vita
Vero è che ognuno è figlio del proprio tempo, per dirla col pensiero hegeliano, ma probabilmente un po’ ci siamo fatti prendere la mano. La pandemia ha dato il colpo di grazia a questo processo, per cui ormai la casa non è solo rifugio e relax (o almeno è quello che dovrebbe essere) ma un vero e proprio hub di consumo, pieno di smart working ma anche di shopping online, streaming dal divano, hobby casalinghi, fitness in camera. Secondo i dati di Empower 2025, questo significa tre ore di tempo libero in più a settimana (evitando gli spostamenti), di cui il 90 per cento viene dedicato (di nuovo!) ad attività solitarie tra le mura domestiche.
Che quindi le nuove abitudini digitali e domestiche siano “appiccicose” e tendano a restare attaccate addosso? A questo punto però, c’è un’altra domanda che sorge spontanea: va bene davvero stare sempre a casa?
Il ristorante (ma anche il bar al mattino per un caffè o per l’aperitivo a fine giornata) storicamente ha fatto anche da spazio di incontro, di osservazione, di confronto. È il luogo dove incroci persone diverse da quelle che già vedi ogni giorno, dove senti altre storie, notizie. È un pezzo di città. Se l’eat-at-home economy diventa l’unico orizzonte possibile, allora sorge anche una questione di salute mentale, di relazioni, perfino di qualità di ciò che mangiamo. A casa puoi organizzarti bene, cucinare, invitare, creare rituali bellissimi ma puoi anche scivolare in un loop di cibo spazzatura -o perlomeno di un pasto triste e solitario- davanti a uno schermo, senza alcun contatto umano e senza che nessuna IA ti dica che sta diventando un problema.


