Il paradosso dell’accordo USA/UE sui dazi – dalla trade war all’accordo di libero scambio?
di Ettore Sbandi
Il dato politico reale derivante dall’accordo al momento raggiunto tra UE e USA e formalizzato nel comunicato congiunto del 21 agosto risiede nel fatto che l’UE ha accettato di non applicare una logica ritorsiva alle misure del governo USA, che a sua volta – fatte salve talune eccezioni e qualche minore elemento incerto – applicherà dazi di importazione pari al 15 per cento, per tutti i beni di origine unionale. Anzi, ad aprire il mercato sarà proprio l’UE che ha già iniziato l’iter di formalizzazione di misure addirittura di favore per i beni industriali e per taluni prodotti alimentari USA, che addirittura beneficeranno di un trattamento a dazio zero.
I termini di questo accordo sono passati, tra i commentatori, de plano, tra la cronaca e, per taluni, l’enfasi di un deal che sarebbe “il migliore dei possibili, alle condizioni date”, ma che nasconde aspetti che sono in qualche modo rivoluzionari ed aprono la strada ad un ulteriore cambio di paradigma nei rapporti commerciali tra le parti.
L’UE, infatti, puntava apertamente a tariffe “zero per zero”, ma è atterrata – per taluni uscendo perdente dal tavolo, per altri volendo, invece, un accordo che aprisse ad una trattativa di lungo periodo – in una concessione davvero radicale: 15 per cento per i beni di origine UE in import negli USA; zero per i beni di origine USA in import nell’UE.
Al di là di ogni considerazione politica su questo punto di caduta, che ovviamente ha mille distinguo ed eccezioni, esso resta il dato di realtà con il quale fare i conti.
Applicare un dazio (peraltro, un dazio selettivo, come quello USA, che grava in misura diversa in ragione dell’origine del prodotto) significa, in effetti, molte cose: proteggere la produzione interna, gravare di costi di importazione i beni con naturale traslazione del tributo sul prezzo finale, assumere un posizionamento politico, economico e commerciale nei confronti di un determinato Paese, in una logica di innalzamento dello scontro e di risoluzione di un picco di crisi con un nuovo punto di caduta, ossia un nuovo deal.
Gli Usa hanno scelto una posizione proattiva, da leader del nuovo movimento di ricerca di nuovi equilibri globali; al momento, l’UE ha invece scelto di non punire in maniera ritorsiva la controparte commerciale e di non rischiare altresì di incrementare il vortice dell’innalzamento dei costi per imprese e consumatori interni, già gravati oggi da forti dinamiche inflattive.
Posto in maniera così semplice e succinta la ratio dell’accordo, le parti hanno definito l’accordo come un’intesa "basata su equità, equilibrio e reciproci vantaggi", destinata a crescere e modificarsi nel tempo, ma che trova oggi il punto di garanzia per cui si conferma il tetto massimo di 15 punti percentuali di dazi statunitensi sui beni di origine UE, inclusi quelli strategici come auto, farmaceutica, semiconduttori e legname, che come (quasi) tutti gli altri beneficeranno di questo limite.
Per certi versi, poi, questo 15 per cento non si pone come misura aggiuntiva ai dazi di base – quelli, per intendersi, presenti da sempre per i beni di importazione, a prescindere dalla loro origine (i cosiddetti dazi MFN, riservati alla nazione più favorita) –, ma li include già e, pertanto, questo importo è da intendersi ridotto. A differenza degli accordi raggiunti dagli USA con altri partner, in altre parole, questo 15 per cento include già i dazi MFN esistenti, per cui, dove i dazi MFN sono pari o superiori al 15 per cento, non si applicheranno ulteriori dazi. Per fare un esempio, un prodotto che aveva già 10 punti di dazio soffrirà oggi un incremento di 5 punti; mentre un prodotto che aveva già 17 punti di dazio continuerà a pagare 17 e nulla sarà variato, con grande sollievo per molti beni, dall’alimentare alla moda, solo per citarne alcuni.
Ma ciò che impressiona, in quanto innovativo ed inatteso, è l’aspetto tecnico adottato dall’UE. Con una proposta legislativa diretta al Consiglio ed al Parlamento, la Commissione UE ha infatti accelerato il processo esecutivo dell’accordo del 27 luglio, nei termini meglio condivisi tra l’UE e gli USA nel Joint Statement dello scorso 21 agosto. Per l’effetto, l’Unione inizia il processo di riconoscimento dei termini dell’accordo commerciale, con soluzioni tecniche, a dire il vero, piuttosto ardite, ma che puntualmente finiscono per raggiungere i benefici attesi: ossia i dazi al 15 per cento sul maggior numero possibili di beni, incluse automobili e componentistica relativa.
Pur in assenza di un accordo di libero scambio – almeno in senso tecnico e tradizionale – l’UE accorda un regime preferenziale (basato su regole non preferenziali) a dazio zero che, tuttavia, è molto vicino alla linea di confine del trattamento riservato e personale che, in teoria, sarebbe vietato dal diritto internazionale e dalle regole WTO, le stesse che anche gli USA hanno superato con le manovre dell’ultimo anno. In altre parole, sembra essere la stessa UE a fare un bagno di realismo, prendere atto che le regole sono cambiate, che le convenzioni internazionale e l’egida WTO al momento, se non è fallita, è per lo meno congelata, e pertanto la soluzione è la tassazione selettiva, qualcosa che fino a pochi mesi fa era sostanzialmente impensabile (e forse anche ineseguibile)
Questo profilo è, al momento, tutto da indagare, ma deve essere attentamente monitorato perché individua soluzioni tecniche estremamente innovative che, quasi per paradosso, potrebbero risolversi nel prossimo futuro proprio in un accordo di libero scambio che, se si vuole, è l’esatto opposto del punto critico dal quale si è partiti ad inizio delle trattative.
La strategia è, dunque, di realismo oggi e di lungo periodo per gli obiettivi di domani, che sono quelli di liberalizzazione che sono oggi il “dilemma” dell’UE. Nello stesso senso, però, devono agire le imprese, con una strategia per l’oggi ed una, più cauta e lungimirante, per domani. Gli strumenti, per le imprese esportatrici unionali, sono molti (strategici, tecnici, doganali, di mercato, di approvvigionamento, ecc.), e non ve ne è uno che, da solo, può risolvere il problema dei dazi, anzitutto per un motivo: perché i dazi, se si accetta il paradosso, non sono un problema UE, ma un problema US, ossia degli importatori US e, poi, dei consumatori US. È bene, dunque, predicare misura e comprensione del mercato, perché ogni flusso è diverso, ogni prodotto è diverso, ogni origine dei beni è diversa.
Da qui, non si ignora ovviamente che i dazi USA siano una questione enorme, che impatta e impatterà, probabilmente, sui prezzi, sulle relazioni commerciali, sulle catene del valore, sugli schemi di approvvigionamento, sull’e-commerce (dove spariscono franchigie ed esenzioni); ma che al contempo le imprese unionali possono affrontare con una logica selettiva, comprendendo esattamente la direzione che il mercato americano prenderà, per poi, se del caso, attivarsi con strumenti che, prima, sono commerciali (prezzi, condizioni di vendita, di pagamento, di consegna) e, poi, diventano doganali e fiscali (prezzi di trasferimento, regimi sospensivi, first sale, interventi sul valore, riconciliazione, ecc.).