Il paradosso del safeguarding: custodia, potere e vulnerabilità nell’epoca delle istituzioni fragili
di Giuseppe Mogliani
"Ogni custode è anche, in qualche misura, il guardiano del proprio stesso potere."
— Michel Foucault
Negli ultimi anni, la parola “safeguarding” è entrata con forza nel lessico delle organizzazioni pubbliche e private, specialmente in ambiti sensibili come l’istruzione, lo sport e l’assistenza. È una parola che promette sicurezza, cura e tutela. Ma è anche un termine che porta con sé interrogativi profondi. Che cosa significa, davvero, salvaguardare? Chi viene protetto, e da chi?
La sentenza n. 92 del 17 marzo 2025 delle Sezioni Unite della Corte Federale d’Appello della FIGC affronta un caso emblematico: un grave ritardo nell’attivazione di misure protettive nei confronti di minori, all’interno di un contesto organizzativo. Più che un pronunciamento tecnico, si tratta di uno specchio delle tensioni etiche e istituzionali che attraversano la nostra epoca. Il safeguarding, così come emerge da questa decisione, non è solo un insieme di regole: è il punto in cui si incontrano – e spesso si scontrano – responsabilità, potere e fragilità.
In apparenza, il safeguarding è semplice: si tratta di prevenire abusi, negligenze e violenze. Ma a ben vedere, questo concetto si rivela complesso e carico di ambivalenze. Proteggere significa anche decidere chi è vulnerabile, quali rischi sono inaccettabili e quali limiti devono essere posti al comportamento altrui.
Come ha osservato Judith Butler, ogni forma di protezione implica una scelta: non tutte le vite ricevono la stessa attenzione, non tutti i danni la stessa rilevanza. La sentenza della Corte mostra come, in alcuni casi, la risposta dell’istituzione sia stata lenta, confusa e insufficiente. Il problema non è solo giuridico, ma culturale: il safeguarding diventa efficace solo se le organizzazioni sanno riconoscere i segnali, ascoltare le voci più fragili, agire con tempestività.
Il cuore della sentenza ruota intorno alla responsabilità: chi doveva agire, e quando? Chi aveva il dovere di fermare, segnalare e vigilare? Ma la responsabilità non è soltanto giuridica. È anche morale, istituzionale ed esistenziale.
Nel caso analizzato dalla Corte, la mancanza di un’azione chiara e immediata ha lasciato spazio a una narrazione dolorosa, fatta di silenzi, omissioni e lentezze. Il rischio, in questi casi, è che l’istituzione stessa diventi parte del danno.
Ma c’è anche un rischio opposto: che la protezione si trasformi in controllo. Che l’idea di safeguarding degeneri in un eccesso di sorveglianza, in una forma di paternalismo che soffoca l’autonomia: nel nome del bene altrui, si può facilmente arrivare a negare libertà fondamentali.
Tuttavia, quando si tratta di soggetti fragili – minori e persone in posizione subordinata – la questione si fa più complessa. Come proteggere senza dominare? Come ascoltare senza manipolare? Il confine è sottile, e la sentenza lo mostra bene: la linea tra tutela e violazione può essere tracciata solo se l’istituzione agisce con chiarezza, trasparenza ed equilibrio.
Negli ultimi anni, il safeguarding sta assumendo sempre più rilevanza anche in ambito giuridico. Non è ancora una disciplina pienamente codificata ma è ormai riconosciuto come principio guida in molti settori. Rappresenta un tentativo del diritto di rispondere a forme di vulnerabilità che spesso sfuggono ai tradizionali strumenti giuridici.
In questo senso, il safeguarding non è solo un insieme di regole: è un laboratorio di giustizia. E il safeguarding ci costringe a chiederci: l’istituzione è davvero capace di prevenire il danno, o interviene solo quando è troppo tardi?
Uno degli aspetti più toccanti della sentenza è la constatazione che, in fondo, il danno si è consumato perché nessuno ha saputo – o voluto – ascoltare. Il safeguarding richiede, prima ancora che norme e protocolli, una disponibilità all’ascolto. Simone Weil scriveva che “l’attenzione è la forma più rara e pura della generosità”. Proteggere significa prestare attenzione a ciò che è fragile, senza negarlo, senza addomesticarlo.
Un’istituzione che ascolta è un’istituzione che può prevenire. Ma per ascoltare occorre avere il coraggio di fermarsi, di interrogarsi, di dare valore a ciò che è spesso invisibile: il disagio, la paura e il non detto.
Il safeguarding non è solo un insieme di procedure. È una visione del mondo. È la convinzione che ogni essere umano, soprattutto quando è più fragile, ha diritto a essere riconosciuto, protetto e accompagnato. Ma questa visione ha un prezzo: implica mettere in discussione le abitudini, i silenzi e le complicità.
La sentenza n. 92 ci ricorda che non basta avere regole: occorre anche la volontà di applicarle, il coraggio di agire, la capacità di riconoscere il dolore. E ci invita a chiederci: possiamo davvero proteggere, senza prima cambiare il modo in cui guardiamo l’altro?
Forse, più che nuove leggi, ciò di cui abbiamo bisogno è una cultura diversa: una cultura della cura, dell’ascolto e della responsabilità. Una cultura che sappia vedere nella fragilità non un problema da gestire ma una parte essenziale dell’umano da custodire.