Il mercato del lusso di seconda mano: quali riflessi giuridici?
di Carlotta Cacciamani
Negli ultimi anni, il mercato del resale di lusso è passato dall’essere una nicchia per collezionisti a un settore multimiliardario in piena espansione. Piattaforme come Vestiaire Collective, The RealReal o Rebag trasformano abiti e accessori firmati in asset da scambiare, archiviare, talvolta capitalizzare. In parallelo, profili Instagram specializzati, concept store vintage curati e account TikTok di archivisti autodidatti raccontano le storie, visive, materiali, simboliche, degli oggetti di lusso di seconda mano.
Ma dietro l’estetica pulita dell’archivio e l’etica dell’economia circolare, si aprono una serie di questioni giuridiche tutt’altro che secondarie: chi garantisce l’autenticità di un capo firmato? Quando un marchio può opporsi alla rivendita di un oggetto che porta il suo nome? E fino a che punto è lecito usare immagini, loghi o referenze culturali legate a brand e celebrità per promuovere pezzi usati?
In bilico tra diritto industriale, tutela dell’immagine e logiche del desiderio, la rivendita del lusso costringe oggi a ripensare il concetto stesso di “originale”. E rivela quanto la moda, anche quando cambia proprietario, resti un oggetto giuridico vivo e sorvegliato.
Il punto di partenza è chiaro: chi acquista legalmente un bene di lusso ha, in linea generale, il diritto di rivenderlo. È il cosiddetto principio di esaurimento del diritto: una volta che un oggetto è stato immesso sul mercato con il consenso del titolare del marchio, quest’ultimo non può più opporsi alla sua successiva circolazione. È il fondamento giuridico che consente al mercato dell’usato di esistere, non solo nel lusso, ma anche per libri, vinili, tecnologia, opere d’arte.
Tuttavia, la moda di lusso è un settore particolare: quando si rivende un abito non si trasmette solo un oggetto, ma anche un simbolo, un’estetica, una forma di status. Per questo motivo, i brand sono spesso molto attenti a come (e dove) i loro prodotti vengono rivenduti. Se la rivendita genera confusione sull’identità del rivenditore, sfrutta indebitamente il marchio o danneggia l’immagine del brand, il diritto può intervenire.
Un caso emblematico è la battaglia legale tra Chanel e la piattaforma The RealReal, avviata nel 2018. Chanel ha accusato l’azienda americana di vendere borse contraffatte, ma anche di utilizzare in modo scorretto il marchio “Chanel” nel proprio marketing, creando l’illusione di una partnership inesistente. Il punto è delicato: anche se l’oggetto è autentico, la piattaforma non può dare l’impressione di essere un rivenditore ufficiale, perché ciò implicherebbe un rapporto giuridico che non esiste.
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