Il lavoro finisce, il Fisco no: perché tassare i robot per pagare le pensioni resta (oggi) impossibile
di Claudio Garau
Ce ne stiamo accorgendo tutti: l’intelligenza artificiale è una nuova frontiera dell’era tecnologica, perché sta ridefinendo il modo in cui pensiamo, lavoriamo e comunichiamo. Sta trasformando in realtà ciò che fino a pochi anni fa sembrava fantascienza. E non a caso, negli ultimi mesi, il tema dell’automazione è tornato prepotentemente al centro del dibattito pubblico.
Negli Stati Uniti, un colosso come Meta sta investendo miliardi di dollari per sostituire parte della manodopera umana, con sistemi automatizzati e robot dotati di intelligenza artificiale. Amazon, ad esempio, punta a rimpiazzare oltre 600 mila lavoratori entro un decennio, grazie all’impiego di macchine intelligenti. Numeri che, inevitabilmente, ci portano a riflettere anche in Italia.
Sul web, in questi giorni, si può leggere una notizia su un argomento che - in verità - non è così nuovo. A Roma, un gruppo di commercialisti bresciani ha presentato una proposta di legge mirata a introdurre un “contributo automazione” nell’apparato delle norme fiscali. Uno specifico prelievo avente la finalità di compensare gli effetti sociali e previdenziali della sostituzione del lavoro umano, con quello delle macchine. L’iniziativa è stata illustrata a un gruppo di senatori di opposti schieramenti politici ma - al di là e a prescindere dalle sue effettive possibilità di trasformarsi in una norma di legge - porta con sé vari spunti di riflessione critica, in merito all’ipotesi di tassare i robot più evoluti e dotati di intelligenza artificiale.
L’idea è senza dubbio suggestiva e sarà balenata in testa a molte persone: io tasso le macchine perché - in qualche modo - devo restituire alla collettività una parte del valore che esse generano sostituendo, replicando od ottimizzando il lavoro umano di operai e impiegati. Così facendo, riequilibro i costi sociali dell’automazione.
Ebbene, proprio di questa possibile - e forse inevitabile -“sostituzione di massa” parla un recente rapporto della Fondazione Randstad AI & Humanities, mentre in rete già circolano neologismi dal retrogusto catastrofico, come jobapocalipse - il termine usato per descrivere uno scenario in cui l’IA sostituisce massicciamente l’occupazione umana, aprendo al timore di un futuro con pochissimi posti di lavoro classici.
Al di là della paura di fondo, c’è oggi un oggettivo dato che spicca: il Paese invecchia e il gettito dimuinuisce. L’Italia si trova di fronte a un invecchiamento demografico senza precedenti - meno lavoratori e più pensionati - mentre l’automazione è destinata a ridurre progressivamente tasse e contributi previdenziali, derivanti dall’occupazione tradizionale.
In breve, a meno persone che lavorano corrispondono meno entrate fiscali e meno risorse per finanziare le pensioni. Parallelamente, se è vero che la stessa automazione genera nuove figure professionali e maggiore produttività, lo è altrettanto che il saldo previdenziale rischia di restare negativo.
La citata proposta che, come vedremo tra poco, non è affatto esente da critiche, si incentra - sostanzialmente - su una sorta di fondo per la transizione e chi risparmia sul costo del lavoro, grazie ai robot intelligenti, deve contribuire a sostenere i costi per la società. Deve farlo, però, in modo alternativo a quello convenzionale e tipico delle norme fiscali e previdenziali.
La proposta del gruppo di commercialisti può essere sintetizzata in questi termini: se la più evoluta tecnologia produce vantaggi economici misurabili rispetto a una soglia di riferimento settoriale, quel vantaggio deve tradursi in risorse per la riqualificazione professionale e la previdenza dei lavoratori sostituiti. Conseguentemente, va istituito un fondo autonomo - separato dalla fiscalità generale e alimentato da un inedito “contributo automazione”- destinato a finanziare pensioni integrative, corsi di formazione e politiche di ricollocamento.
Come a voler scavalcare la questione della soggettività giuridica dei robot, il calcolo del contributo non si baserebbe sul valore del robot in sé sull’asset - ma su indicatori di bilancio verificabili: ricavi aziendali e costi del personale confrontati con le medie settoriali. E laddove un’impresa mostri un risparmio molto significativo e “anomalo” sulle spese per il lavoro umano - rispetto alla media del suo settore - scatterebbe la contribuzione. In altre parole, onde evitare discussioni sulla natura giuridica dei robot - cioè se possano o meno essere considerati “soggetti” tassabili - il contributo non verrebbe applicato direttamente al valore delle macchine, come avviene per i beni materiali, ma si guarderebbero i citati indicatori. In quel caso scatterebbe la nuova imposizione, vista come una forma di compensazione sociale e come strumento di una logica redistributiva.
Finché la tecnologia resta un mezzo al servizio dell’uomo, non è soggetta a imposizione fiscale, ma diviene tassabile nel momento in cui svolge attività produttive, di fatto prendendo il posto degli esseri umani. Nella proposta bresciana si arriva a parlare così di “capacità contributiva” generata dall’automazione, che sostituisce il lavoro delle persone.
A ben vedere, l’iniziativa in oggetto si basa - quindi - su un criterio “indiretto” di tassazione dell’automazione. Ma, come accennato sopra, l’idea se non è nuova - di una simile tassa sui robot aveva già parlato nel 2017 Bill Gates per costituire una sorta di reddito universale - è di certo giuridicamente problematica. Negli Stati Uniti, Bernie Sanders ha recentemente ripreso lo “scivoloso” concetto - invocando una sorta di robot tax a tutela dei lavoratori - mentre nel nostro continente, gruppi di eurodeputati hanno già proposto di regolamentare nel dettaglio il rapporto tra automazione e lavoro umano.
La questione di fondo è che, nel nostro Paese, un ostacolo non indifferente rende la proposta un vero e proprio rebus: i robot non esistono giuridicamente come soggetti fiscali. Ad oggi, infatti, nessuna legge riconosce, nei loro confronti, una soggettività giuridica autonoma, né sul piano civile né su quello fiscale. Non sono “persone elettroniche”, non possono possedere beni, stipulare contratti o essere titolari di redditi od obblighi fiscali.
In breve, non possono essere ritenuti responsabili in senso giuridico del termine, e tutte le conseguenze legali e fiscali dell’uso di una macchina (ad es. un robot industriale, un assistente automatizzato o un software di intelligenza artificiale) ricadono - quindi - sul soggetto umano o giuridico che ne è proprietario o utilizzatore, ovvero sull’impresa, sul programmatore o sul committente.
Ecco perché - volendo restare sul terreno del rigoroso diritto positivo (e sarebbe auspicabile, in una “giungla” come quella del Fisco, dove già abbondano norme che non sbrogliano la matassa) - tassare un robot in sé è, allo stato attuale, giuridicamente impraticabile. Per poterlo fare, bisognerebbe prima attribuirgli una configurazione o personalità giuridica, ossia riconoscerlo come entità dotata di diritti e obblighi: un salto concettuale che il legislatore europeo ha ipotizzato, ma mai compiuto.
In passato nell’UE si era parlato di una possibile attribuzione di una “personalità elettronica”, rimasta però lettera morta. Infatti, nel 2017 il Parlamento Europeo ne aveva discusso il possibile “varo” per i robot più avanzati, un riconoscimento legale che - sul piano strettamente normativo - avrebbe potuto aprire la strada anche a forme di tassazione a se stante, nei confronti delle macchine che prendono autonome decisioni o interagiscono con terze parti, in modo indipendente.
Tuttavia, la proposta non è stata mai recepita o tradotta in norme interne vincolanti, essendo stata - anzi - accantonata dopo le critiche di giuristi, sindacati e associazioni industriali, preoccupati per le implicazioni etiche e pratiche.
Quindi, ricapitolando, ogni ipotesi di “tassa sui robot” resta oggi confinata a un terreno puramente politico e simbolico, sul terreno delle belle speranze. In assenza di una “base giuridica”, l’unico modo per introdurre una misura come quella proposta dai commercialisti bresciani sarebbe colpire indirettamente il vantaggio economico derivante dall’automazione, cioè tassare l’impresa come beneficiaria, non il robot in sé e come soggetto autonomo.
Un’escamotage che però, a parere di chi scrive, costituisce una forzatura concettuale nel già non linearissimo terreno delle norme fiscali e previdenziali. Un modo di simulare un’imposta sulla macchina che, facendo leva su parametri che restano comunque riferiti all’impresa, potrebbe aprire ad attriti con la Costituzione. Al contempo, si rischierebbe di snaturare la logica di neutralità fiscale dell’innovazione, scoraggiando gli investimenti in tecnologie avanzate e creando un precedente ambiguo, in cui si “punisce” la competitività imprenditoriale e il progresso, invece di governarlo con regole chiare, moderne e incoraggianti. Allo stato attuale, nulla vieta di pensare - infatti - che una eventuale imposta troppo rigida sui robot governati dall’IA, potrebbe disincentivare gli investimenti tecnologici, riducendo la competitività internazionale e rallentando la produttività complessiva del sistema industriale del nostro Paese.
A ben vedere, il “contributo automazione” è un’idea che certamente intercetta un problema reale - quello del disallineamento tra tecnologia e sistema previdenziale - ma che si scontra con un limite altrettanto reale: l’assenza di una soggettività giuridica dei robot. Finché le macchine resteranno strumenti e non soggetti di diritto, ogni tentativo di “tassarle” dovrà necessariamente - e direttamente - passare attraverso l’uomo o l’impresa che le utilizza.
In altre parole, prima ancora di discutere quanto debbano contribuire i robot alle nostre pensioni, bisognerebbe decidere chi siano davvero i robot per la legge. Solo dopo una profondissima riflessione sul rapporto tra uomo, lavoro e tecnologia, potremo - forse - davvero parlare di una “fiscalità dell’intelligenza artificiale”.
E non è affatto detto che siano tutti d’accordo nel trasformare un robot dotato di IA in un nuovo soggetto giuridico, replicante l’uomo e come lui capace di diritti e doveri propri, perché significherebbe - a cascata - dover ridefinire i confini stessi della responsabilità, della proprietà, del diritto societario e dei brevetti e, in ultima analisi, dell’identità dell’essere umano nel sistema economico e sociale. Forse è un po’ troppo anche per un’epoca che corre velocissima, ma che non ha ancora trovato il tempo di interrogarsi davvero sul senso del proprio progresso. Il futuro del Fisco, più che nei robot, è nella capacità dell’uomo di governarli.


