C’è stato un giorno in cui ho scritto in una chat di lavoro, una di quelle che contano. Quattordici colleghi coinvolti, un paio di messaggi brevi e ponderati. Nessuna provocazione, nessuna leggerezza. Un invito alla condivisione. Mi hanno risposto in due. Gli altri: silenzio. Il vuoto.
Lì per lì ho pensato che fossero tutti presi da altro. Riunioni, scadenze, problemi più urgenti. Ma poi il messaggio è rimasto lì, fermo. Un frammento dimenticato in un flusso che scorre veloce. E in quell’assenza di risposta, in quella sospensione gelida, ho sentito qualcosa che conosco bene. Ho sentito Godot.
Nel 1948, lo scrittore irlandese Samuel Beckett scrive Aspettando Godot, opera manifesto del teatro dell’assurdo. Un dramma senza senso apparente, ma che racconta tutto. Due uomini, Vladimir ed Estragone, aspettano qualcuno – Godot – lungo una strada di campagna, sotto un albero. Parlano, si lamentano, discutono, fanno per andarsene, ma restano. Sempre. Per due atti, tutto si ripete. Godot non arriva mai.
Non sappiamo chi sia, se esista davvero, perché sia così importante. Non lo sapremo mai. Beckett non lo dice. Ma è proprio questo il punto: Aspettando Godot non è un’opera sull’arrivo, ma sull’attesa.
I dialoghi sono ripetitivi, circolari, talvolta privi di senso logico. L’ambientazione è scarna, immobile. Il tempo si dilata, si svuota. E l’uomo resta lì, aggrappato all’idea che forse domani cambierà qualcosa. Ma quel domani, come Godot, non arriva.
Beckett non parla solo di teatro. Parla di noi. Della condizione umana, dell’incomunicabilità, dell’assurdo di vivere in un mondo senza garanzie, senza risposte, senza un centro stabile. In quel tempo sospeso e vuoto, l’essere umano viene lasciato solo con sé stesso, senza appigli. E oggi, in molte realtà lavorative, siamo esattamente lì.
Viviamo in aziende che sembrano palcoscenici dell’assurdo. Si lavora per presidiare, non per decidere. Si inviano messaggi non per comunicare, ma per lasciare traccia. Si partecipa a riunioni che sembrano ripetizioni del giorno prima, dove si aggiorna senza mai davvero muoversi.
Il lavoro si è trasformato in attesa. Attendiamo l’approvazione. Il feedback. Il cliente. L’algoritmo. L’aggiornamento. E mentre aspettiamo, ripetiamo i gesti. Compiliamo. Tracciamo. Scriviamo. Rileggiamo. Controlliamo. Ma dentro, siamo fermi. Come Vladimir ed Estragone, non sappiamo più nemmeno cosa stiamo aspettando. Eppure, restiamo.
La parte più pericolosa non è nemmeno l’inazione. È la “normalizzazione” dell’attesa. Il fatto che tutto questo venga considerato parte del processo, del metodo, dell’organizzazione. “Fa parte del gioco”, si dice. Ma se il gioco è non agire, non decidere, non rispondere, allora è un gioco che ci svuota.
Aspettando Godot non è solo un’opera teatrale. È uno specchio. Ci mostra cosa succede quando si continua a rimandare, a posticipare, a delegare alla speranza ciò che dovrebbe essere responsabilità. È un’analogia perfetta del lavoro vissuto come sospensione, come delega infinita, come teatro dell’inutilità.
E allora il silenzio dei colleghi in quella chat non è solo mancanza di reazione. È un sintomo. Un segnale. È il modo in cui oggi molte persone vivono il lavoro: come uno spazio da presidiare, non da abitare. Dove l’assenza di risposta è la regola. Dove tutto è detto per non dire, fatto per non concludere, scritto per non esporsi.
Godot potrebbe essere il cliente o il collega. Ma forse, il vero Godot siamo noi. Noi che restiamo in attesa. Noi che leggiamo e non rispondiamo. Noi che scegliamo il silenzio, la prudenza, la neutralità. Per non sbagliare. Per non compromettere. Per non esserci davvero.
Ma il teatro è finzione. Il lavoro no. E un lavoro che vive di attesa è un lavoro che smette di essere umano. Svuotato di senso, svuotato di coraggio. Fino al punto in cui anche una risposta mancata diventa normalità.
Forse oggi serve meno presenza e più azione. Meno attesa e più decisione. Meno silenzio e più voce.
Perché restare fermi non è sempre una scelta prudente. A volte è solo il modo più elegante per smettere di vivere davvero il proprio ruolo.