Il genitore solvibile e il genitore presente: il corto circuito della bigenitorialità

di Giorgia Dumitrascu

Per mesi aveva visto sua figlia a ritagli di tempo. Due pomeriggi a settimana. Una domenica sì e una no. Il padre c’era con il portafoglio. La Corte d’Appello così aveva deciso: “collocamento prevalente alla madre, tempi ridotti di frequentazione per il padre, motivazione logistica”. La bambina “aveva bisogno di stabilità”. Stabilità, in concreto, significava più madre, meno padre.

È servito l’intervento della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 1486 del 2025, per rimettere al centro un principio che nella prassi rischia di essere un dettaglio, i tempi di permanenza non sono una variabile organizzativa, ma il luogo concreto in cui si realizza il diritto del minore a una relazione con entrambi i genitori. La presenza viene tutelata non come regola fisiologica del sistema, ma quando è già stata compressa, ex post.

Il diritto di famiglia prevede che il minore ha diritto a una relazione equilibrata e continuativa con ciascun genitore, a ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale. Lo dice l’articolo 337-ter c.c., lo ribadisce la giurisprudenza quando definisce la bigenitorialità come presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita con entrambi. Nelle aule giudiziarie, però, il baricentro si sposta. Non sul tempo di cura, non sulla continuità educativa, non sulla presenza quotidiana. Si sposta sul reddito. Sulla capacità contributiva. Sulla solvibilità.

L’architettura normativa spiega già molto. L’articolo 316-bis c.c. àncora l’obbligo di mantenimento alle rispettive sostanze e alla capacità di lavoro, anche potenziale; l’articolo 337-ter c.c., nel disciplinare il contributo, elenca sì anche i tempi di permanenza e il valore economico dei compiti di cura, ma li colloca accanto a criteri patrimoniali (redditi, risorse, tenore di vita) che restano gli unici immediatamente quantificabili.