Ci sono immagini che restano scolpite nella memoria collettiva più di qualunque manuale di strategia aziendale. Le serrande abbassate dei negozi Toys “R” Us, l’annuncio del fallimento di Kodak, i titoli dei giornali che decretano “la fine di BlackBerry”.
Non sono solo fatti di cronaca: sono simboli di un’epoca in cui l’innovazione ha divorato se stessa, e chi non ha saputo cambiare passo è rimasto indietro, schiacciato da un futuro che non perdona.
La storia recente del business è disseminata di casi simili. Aziende che dominavano interi settori e che, nel giro di pochi anni, si sono trovate irrilevanti. Kodak inventò la fotografia digitale ma non ha saputo crederci fino in fondo. Yahoo, un tempo la porta d’ingresso al web, perse la direzione in un labirinto di acquisizioni e indecisioni strategiche. Blockbuster “rise” in faccia a Netflix, che oggi vale quasi duecento miliardi di dollari. “Le aziende muoiono due volte: la prima quando smettono di innovare, la seconda quando smettono di capire i propri clienti”, scriveva Peter Drucker. Secondo me aveva proprio ragione.
Il paradosso è che quasi tutte queste aziende avevano visto arrivare il cambiamento, ma non hanno avuto il coraggio o la cultura organizzativa per affrontarlo. Kodak sapeva che il digitale avrebbe rivoluzionato la fotografia, ma temeva di cannibalizzare il proprio business analogico. Yahoo intuì che la ricerca online era la chiave del futuro, ma preferì puntare su portali generalisti e media. Blockbuster aveva i capitali per acquistare Netflix quando era ancora un piccolo servizio di noleggio DVD, ma considerò Internet un canale secondario.
La lezione è chiara: il declino raramente nasce da un errore tecnico o da una crisi esterna, spesso è il risultato di una miopia culturale, di un arroccamento su ciò che ha funzionato ieri. È il trionfo del “così abbiamo sempre fatto”. In un mondo in cui la tecnologia cambia le regole ogni giorno, questa frase equivale a una condanna.
Come e cosa si può imparare dal passato? La risposta non sta solo nella velocità, bensì nella capacità di leggere anche i segnali deboli. Le aziende di successo non reagiscono, anticipano. Amazon, ad esempio, non ha aspettato che il retail collassasse per aprire al cloud. Ha osservato che le proprie infrastrutture informatiche potevano diventare un nuovo business e ha costruito AWS, oggi tra i motori più redditizi del gruppo. Allo stesso modo, Apple non si è limitata a produrre computer migliori, ma ha reinventato la relazione con il consumatore trasformando il telefono in un ecosistema.
Il punto non è tanto fare innovazione, quanto creare le condizioni culturali e organizzative perché l’innovazione sia continua e prosperi. Molte aziende fallite avevano ottimi ingegneri, ma sistemi decisionali rigidi e una leadership incapace di ascoltare e reagire. L’errore di tante, per esempio: avere un management frammentato, più attento ai giochi di potere interni che al mercato. È qui che si gioca la differenza tra adattarsi e sparire.
C’è poi un tema cruciale: la capacità di disimparare. Nel mondo digitale, la conoscenza invecchia rapidamente. Un modello di business può funzionare perfettamente oggi e diventare obsoleto domani. Chi guida un’azienda deve avere l’umiltà di mettere in discussione ciò che sa, anche - e soprattutto - quando le cose vanno bene. Kodak non fallì perché non conosceva il digitale, ma perché non seppe disimparare la pellicola. La lezione vale anche per noi: ogni successo, se non viene riletto alla luce del cambiamento, diventa una trappola.
Un altro aspetto da tenere sempre a mente è che la tecnologia non è solo un abilitatore, ma un linguaggio. Non basta digitalizzare i processi, serve comprendere come il digitale modifichi le abitudini, le aspettative e i comportamenti. I clienti non vogliono più solo prodotti, vogliono esperienze. E queste esperienze si costruiscono su dati, velocità, personalizzazione e cuore. Le aziende che falliscono spesso hanno un problema di lentezza cognitiva: si muovono con gli strumenti del secolo scorso in un mondo che viaggia alla velocità dell’algoritmo.
“Non è il più forte della specie che sopravvive, né il più intelligente, ma quello che si adatta meglio al cambiamento”, scriveva Charles Darwin. È un principio biologico, ma si applica perfettamente al mondo delle organizzazioni. Oggi adattarsi significa integrare la tecnologia non come strumento di efficienza, ma come parte della strategia identitaria. Non basta avere un reparto IT o un piano di digital transformation. Serve che l’innovazione diventi una responsabilità collettiva, diffusa in tutta l’organizzazione.
A mio avviso, le organizzazioni che prospereranno nei prossimi anni saranno quelle capaci di combinare curiosità e disciplina. Curiosità per sperimentare, disciplina per rendere la sperimentazione sostenibile. Non si tratta di rincorrere ogni moda tecnologica, ma di costruire un sistema nervoso che sappia reagire in modo intelligente ai cambiamenti. Questo significa dati integrati, decisioni basate su evidenze, ma anche leadership che incoraggiano il dissenso e l’apprendimento.
E infine, c’è un elemento troppo spesso sottovalutato: la memoria del fallimento. Le aziende che si illudono di essere “troppo grandi per cadere” finiscono per non imparare mai. Kodak, Yahoo, Nokia, Motorola: i loro crolli non sono solo episodi di mercato, ma moniti culturali. Riconoscere i segnali di vulnerabilità è un atto di forza, non di debolezza. Ogni azienda dovrebbe istituire un “osservatorio dell’errore”, uno spazio in cui analizzare ciò che non ha funzionato senza cercare colpevoli. L’innovazione nasce più spesso da una sconfitta ben capita che da un successo non analizzato.
Imparare dai giganti caduti significa capire che la vera minaccia non è il cambiamento, ma la paura del cambiamento. La storia di Blockbuster o Polaroid non è una condanna, ma una lezione: se il mondo cambia e tu non cambi con lui, non ti aspetta.
Dovremmo ricordarci ogni giorno che la longevità aziendale non dipende dal passato, ma dalla capacità di guardare avanti con lucidità e coraggio. Perché in fondo, come disse Steve Jobs nel celebre discorso a Stanford, “l’unico modo per fare un ottimo lavoro è amare quello che fai. E l’unico modo per continuare ad amarlo è non smettere mai di cambiare.”


