Il futuro delle competenze: ancora per quanto possiamo ignorarlo?
di Andrea Tordini
La scorsa settimana, ho ascoltato una frase che mi ha colpito: “L’intelligenza artificiale sarà presto in grado di svolgere la maggior parte dei lavori umani”. Nulla di nuovo, se non che a pronunciarla fosse stato un bambino.
Mi ha fatto riflettere: se persino i più piccoli danno per scontata una trasformazione così radicale, ancora per quanto tempo possiamo ignorarla?
Da lì un’ulteriore domanda ha iniziato a rimbalzarmi in testa: cosa resterà davvero esclusivo dell’essere umano?
Non è una provocazione, è un profondo invito a riflettere. In un’epoca in cui le macchine imparano alla velocità della luce, prendono decisioni e generano contenuti, il vero tema non è la tecnologia in sé, ma il posto che sapremo ancora occupare in questo nuovo scenario.
Oggi, chi guida un’azienda o un team non può più permettersi di rimanere spettatore. Non si tratta solo di introdurre nuove tecnologie, ma di ridefinire il significato stesso del “sapere fare”. Le competenze che ci hanno reso competitivi fino a ieri, domani potrebbero non bastare più. E quelle che ci serviranno, non le abbiamo nemmeno ancora immaginate.
Il ciclo di vita delle competenze
Fino a pochi anni fa, la progressione professionale, almeno sulla carta, era piuttosto lineare. Si acquisiva una competenza, anche molto specifica, la si consolidava, e nel tempo veniva fatta fruttare. Oggi questo trend è stato stravolto. Le competenze si usurano più in fretta, e spesso, cambiano forma prima ancora che ce ne accorgiamo.
Consideriamo ad esempio l’evoluzione delle competenze del CFO; generalmente figura esperta, navigata, abituata a leggere i numeri, ad anticipare scenari e contenere rischi. Oggi questo ruolo richiede anche una profonda comprensione del contesto di business, della logica dei dati in tempo reale, dei modelli predittivi, delle metriche ESG. Non si tratta solo di “capire cosa cambia” ma di ripensare l’identità professionale alla luce di nuove esigenze. E non parliamo di tecnologia fine a sé stessa: parliamo di capacità di visione, di dialogo con l’IT, di gestione della complessità (sempre nuova).
Un altro esempio lo troviamo nel mondo HR. Fino a qualche anno fa, un responsabile risorse umane presidiava i processi di selezione, la gestione dei contratti e delle relazioni sindacali. Oggi, in molte aziende, ci si aspetta che guidi la cultura organizzativa, contribuisca alla strategia, assicuri il benessere delle persone e abbia a cuore lo sviluppo delle competenze (quelle che servono davvero al professionista e all’azienda). Un salto di paradigma, che richiede competenze nuove, certo, ma soprattutto una diversa postura ed atteggiamento.
Le aziende non cercano più solo competenze
C’è un passaggio chiave che spesso sfugge: non è tanto la singola abilità tecnica a fare la differenza, quanto la capacità di apprendere, adattarsi e creare nuove connessioni. Le aziende cercano sempre più persone capaci di muoversi tra contesti diversi, di parlare linguaggi differenti, di affrontare la complessità con lucidità e spirito critico.
Come sostengono leader come Satya Nadella, non sarà l’IA più potente a fare la differenza, ma la capacità di combinarla con l’ingegno umano.
Pensiamo alla figura del direttore operations. Oggi non basta più essere bravi ad organizzare turni e ad ottimizzare risorse. Bisogna saper interpretare dati provenienti da sistemi interconnessi, coordinarsi con fornitori che operano secondo logiche di sostenibilità, negoziare in uno scenario costantemente in preda all’instabilità. E tutto questo, spesso, avviene mentre si sviluppano nuovi modelli organizzativi.
Riadattarsi non vuol dire “ricominciare da capo” ma “ogni giorno”
Il rischio, quando si parla di dover aggiornare le competenze, è quello che si possa generare ansia da prestazione. Molti professionisti temono di dover abbandonare ciò che sono sempre stati per reinventarsi completamente. Ma nella maggior parte dei casi, non è così. Si tratta piuttosto di aggiungere, non di sostituire.
La vera sfida non è imparare ad usare un nuovo software, è coltivare una mentalità di apprendimento permanente, senza vivere ogni novità come un attacco alla propria identità. Parafrasando il pensiero del fondatore di LinkedIn Reid Hoffman, “Nel mondo del lavoro attuale, chi non è in beta permanente è già obsoleto”.
La trasformazione delle competenze riguarda anche la cultura manageriale
Un cambiamento così profondo non può essere lasciato al singolo. Serve un’evoluzione culturale all’interno delle aziende. E questa evoluzione parte – inevitabilmente – dalla leadership.
Il manager che oggi fa la differenza è quello che sa mettersi in gioco, prima ancora di chiederlo ai suoi collaboratori; che non ha paura di dichiarare che c’è qualcosa che non conosce. Che costruisce contesti dove l’apprendimento è prima di tutto un valore più che una richiesta.
Nelle aziende più evolute, questo si traduce in progetti concreti: momenti di apprendimento, scambi di ruolo temporanei per favorire la contaminazione e mettersi nei panni del collega, percorsi di mentoring inverso in cui i giovani aiutano i senior a sviluppare nuove competenze (anche digitali).
Non servono soluzioni miracolose ma continuità, coerenza ed una leadership che creda davvero che la crescita delle persone sia un asset strategico e non un’attività accessoria o da riportare esclusivamente nei report di sostenibilità.
Le competenze che contano e che conteranno
C’è un filo comune che lega tutte queste riflessioni: a mio avviso, le competenze che faranno la differenza saranno quelle che permetteranno di stare nel cambiamento senza soccombere, anzi, traendone energia nuova.
Parliamo di pensiero critico, di capacità analitica, di flessibilità mentale. Parliamo di empatia, comunicazione efficace e gestione dell’incertezza. Non sono soft skills, preferisco chiamarle “human skills”. Quelle che nessuna intelligenza artificiale potrà replicare fino in fondo. Quelle che tengono insieme numeri e relazioni, strategia e persone.
Una conclusione (molto personale)
È un dato di fatto che il lavoro che ci aspetta nei prossimi anni non sarà più lineare, così come le competenze che ne necessitano, né per i giovani, né per chi vanta una carriera longeva. Non si tratterà di correre più veloce, ma di scegliere direzioni più consapevoli, di costruire ponti tra ciò che sappiamo fare e ciò che il contesto ci richiede e di imparare ciò che serve, quando serve.
A mio avviso, le aziende tenderanno a privilegiare la scelta di persone capaci di crescere insieme all’organizzazione, rispettandone il suo DNA, piuttosto che profili perfetti. Non sarà necessario inseguire ogni trend, ma, sarà sicuramente determinante coltivare con costanza quelle competenze che permetteranno di fronteggiare con preparazione i cambiamenti.
In fondo, non è una questione di tecnologia. È una questione di intelligenza adattiva. Che, con buona pace dell’IA, resta – per ora – un’esclusiva (quasi) tutta umana.