Il futuro degli studi professionali? I cobot - Il vostro collega di scrivania non sarà più umano
di Mario Alberto Catarozzo
Mentre i collaboratori di studio si lamentano del carico di lavoro e delle ore passate a compilare moduli F24, a redigere bilanci ripetitivi o a elaborare buste paga, c’è qualcuno – o meglio, qualcosa – pronto a rubargli il posto. Non con la forza, sia chiaro, ma con l’efficienza. Si chiamano cobot, i “collaboratori robot” dotati di intelligenza artificiale, e stanno per trasformare gli studi professionali in un luogo dove le scrivanie non avranno più sedie e poltrone, ma tanti computer con altrettanti cobot al lavoro.
Non pensate all’immagine del robot antropomorfo, a cui spesso siamo abituati a collegare l’idea di robot. Qui parliamo di macchine intelligenti: software sofisticati, algoritmi che leggono migliaia di dati in pochi secondi, sistemi che analizzano le situazioni finanziarie e identificano anomalie prima che voi abbiate finito di aprire il file Excel. Il cobot non ha bisogno di pausa pranzo, non chiede ferie, non si lamenta dello stipendio e commetterà sempre meno errori fino a diventare pressoché perfetto.
Una provocazione? In parte
Certo, quanto sopra suona come una provocazione, ma in realtà vuole essere un campanello di allarme per contabili, payroll specialist, personale di staff e, in qualche caso, anche per i professionisti stessi. Per decenni ci hanno trasmesso che bastava studiare tanto, aggiornarsi, conoscere leggi e fare pratica. Ora scopriamo che molto di ciò che abbiamo imparato…può essere sostituito e replicato – e più velocemente – da un’AI. I dati ci dicono che il 79 per cento dei commercialisti vede nell’intelligenza artificiale uno strumento per ottimizzare tempi e risorse, automatizzare processi ripetitivi, risparmiare costi e aumentare la produttività. Traduzione brutale? Quei compiti che fino a ieri giustificavano la presenza in studio di molti collaboratori, domani li farà un algoritmo.
Gli studi legali hanno già cominciato a utilizzare l’AI per la ricerca giuridica, l’analisi contrattuale e la due diligence. I commercialisti provano a delegare alla macchina controlli di conformità, elaborazione di dichiarazioni fiscali, analisi predittive. I consulenti del lavoro cercano di capire se, e in che termini, possono produrre i cedolini, gestire adempimenti previdenziali, monitora normative in modo automatico.
Sia ben chiaro, non stiamo dicendo che è bella o auspicabile questa prospettiva, ma è la realtà che verosimilmente si prospetta se i trend in atto verranno mantenuti. Il 66 per cento delle PMI italiane si aspetta già oggi dal commercialista un ruolo orientato alla consulenza strategica, non alla mera esecuzione tecnica e i clienti non vogliono più pagare qualcuno per riempire moduli o calcolare interessi: sanno oramai che d’ora in poi queste attività le può fare un software a costo quasi zero. Vogliono, dunque, visione, interpretazione, quella scintilla umana che un algoritmo – almeno per ora – non possiede. Ed è qui che gli studi si giocheranno la partita nel prossimo futuro. Ma qui arriva il colpo di scena: quella “scintilla umana” non è un talento innato. Non basta essere umani per essere insostituibili. Serve sviluppare competenze che la macchina non può replicare. E no, non stiamo parlando di imparare Python o capire come funziona ChatGPT. Quella è la trappola: credere che basti diventare “tecnologici” per essere al sicuro.
Le soft skills: l’unica ancora di salvezza
Mentre i cobot assorbiranno buona parte delle mansioni ripetitive, resta un territorio ancora vergine per le macchine: le relazioni umane. Empatia, ascolto attivo, capacità di negoziazione, gestione delle emozioni del cliente, pensiero critico, creatività nella risoluzione di problemi complessi. Queste sono le soft skills che l’intelligenza artificiale non può clonare. Un cliente impaurito da un accertamento fiscale non vuole un report generato dall’AI: vuole qualcuno che lo rassicuri, che sappia leggere tra le righe della sua situazione personale, che costruisca una strategia su misura. Un imprenditore in crisi non cerca dati freddi, ma un professionista capace di comprendere la complessità del suo business e suggerire soluzioni innovative.
Stiamo assistendo in questa epoca a un’inversione storica. Per generazioni, le professioni intellettuali sono state considerate “al sicuro” dall’automazione. Mentre i robot sostituivano operai in fabbrica, i colletti bianchi si sentivamo intoccabili. Questa volta è diverso: l’AI minaccia prima i lavori cognitivi ripetitivi e poi quelli manuali. È più facile automatizzare un calcolo complesso, che riparare una tubatura.
Ma la vera domanda provocatoria è: quanti collaboratori di studio stanno realmente investendo in queste competenze? Quanti partecipano a corsi di comunicazione efficace, di gestione del cliente, di leadership? La risposta è deprimente: pochissimi. Tutti corrono dietro all’ultimo aggiornamento normativo (che l’AI impara in millisecondi), nessuno si chiede come sviluppare intelligenza emotiva.
Il futuro degli studi non sarà “umani versus macchine”, ma umani potenziati dalle macchine. Il professionista vincente sarà quello che usa i cobot per liberare tempo dalle attività a basso valore aggiunto e dedicarsi alla consulenza strategica ad alto impatto. Il collaboratore di studio che sopravvivrà sarà quello che porta valore relazionale, non tecnico. I cobot non sono il nemico: sono lo specchio che riflette l’obsolescenza di chi si rifugia nella routine.


