Il “falso di lusso” tra diritto e sociologia: perché alcuni falsi fanno status e altri sono solo reato?
di Carlotta Cacciamani
Indossare un falso non è sempre una truffa. Può essere una forma di adesione, un modo per sfidare le regole, o semplicemente una scorciatoia estetica. Nella moda, dove l’apparenza è tutto e l’autenticità è spesso costruita a tavolino, il falso di lusso è più di un reato: è un linguaggio.
Si copia il logo, il design, la promessa implicita di uno stile di vita. Si copia non solo per desiderio, ma per giocare con i giochi del potere. Alcuni falsi sono goffe imitazioni da bancarella, altri sono oggetti ultra curati che sfidano gli originali sul piano della qualità. In certi ambienti, possedere un “superfake” è quasi un “badge” culturale: un modo per dire “so che è finto, ma lo porto lo stesso”.
In questo contesto fatto di repliche, reinterpretazioni e “dupe” virali, la linea tra legale e illegale, tra copia e citazione, è sempre più sottile. Cosa rende autentico un oggetto? E cosa rende autentico il desiderio che ci spinge a volerlo, anche in versione contraffatta? A metà tra diritto e cultura visiva, l’universo del falso di lusso ci racconta molto più di quanto sembri: sulle strategie dei brand, sullo status sociale, ma soprattutto su come vogliamo essere visti.
Nel mondo della moda, non tutto ciò che sembra copia lo è davvero e non tutto ciò che lo è, è illegale. A livello giuridico, il falso di lusso diventa reato quando viola specifiche tutele del diritto industriale: principalmente marchi registrati, design protetti, brevetti o, in alcuni casi, il diritto d’autore.
La differenza centrale è tra ispirazione e contraffazione. Una borsa che richiama lo stile di una Birkin ma non riporta il logo Hermès può trovarsi in una zona grigia: visivamente simile, ma legalmente “accettabile”. Una replica identica, con tanto di marchio e finiture imitanti l’originale, rientra invece nella contraffazione vera e propria, punita dalla legge in quasi tutti i paesi, compresa l’Italia.
Il reato colpisce innanzitutto chi produce e vende il falso, spesso legato a filiere informali o criminali, ma in alcuni casi anche l’acquirente può essere perseguito, se consapevole della natura fraudolenta del prodotto. È il caso, ad esempio, di chi compra volutamente online da siti che imitano i canali ufficiali o trattano falsi spacciati per veri come DHGate, una piattaforma cinese di shopping online che vende volutamente fake, nonostante nelle immagini del prodotto venga coperto il logo.
Oltre al danno economico per i brand, la legge tutela qualcosa di più simbolico: il valore distintivo, l’identità di marca, quella “firma invisibile” che nella moda vale quanto (se non più di) stoffa e cuciture. Il falso rompe questo patto di riconoscibilità, disinnesca l’aura del prodotto, ma, ed è qui la contraddizione, lo fa proprio perché riconosce quella stessa aura e la riproduce.
C’è stato un tempo in cui il falso si portava di nascosto. Oggi, in certi ambienti, si ostenta con la stessa fierezza di un originale. Anzi: più è falso, più è interessante. Il fenomeno dei superfake, repliche di altissima qualità, indistinguibili dagli originali se non per dettagli minimi, non riguarda più solo il bisogno di “imitare i ricchi”, ma sfiora il territorio dell’atto estetico e politico.
La copia, infatti, non è solo un doppione: è un gesto. Da Dapper Dan, che negli anni ’80 a Harlem remixava loghi di Gucci e Louis Vuitton per l’estetica black streetwear, fino ai brand contemporanei che costruiscono la loro identità sull’appropriazione dichiarata (Vetements, MSCHF, Fake Gucci), il falso ha smesso di nascondersi. È diventato parte integrante del linguaggio visivo della moda, al punto che alcuni brand finiscono per copiare i falsi di se stessi, come in una spirale paradossale.
In molti casi, il fascino del falso sta proprio nella sua ambiguità: sta al confine tra autenticità e simulacro, tra tributo e satira. È uno statement culturale che dice: “Non posso (o non voglio) permettermi l’originale, ma posso appropriarmi della sua immagine”. E in un’epoca in cui l’immagine è più reale dell’oggetto, forse questo basta.
Non tutti i falsi sono illegali. Alcuni sono semplicemente “quasi veri”. È il caso dei dupe (abbreviazione di “duplicate”), prodotti che riprendono lo stile e l’estetica di un oggetto iconico, una borsa di Bottega Veneta, un paio di Miu Miu, un rossetto Dior, ma senza marchio, e senza intento di inganno. Legali, perfettamente acquistabili su TikTok Shop o Shein, i dupe sono diventati il simbolo di una nuova forma di consumo: estetico, accessibile e consapevole.
In questa zona grigia dove nulla è davvero originale ma nulla è completamente falso, il linguaggio del lusso si diffonde, si duplica, si reinventa. Il mercato fast fashion vive di questa logica: riprodurre tendenze prima ancora che i trend abbiano avuto il tempo di consolidarsi. Il risultato è una moda fatta di eco, di disegni riciclati, di simboli svuotati e moltiplicati all’infinito.
Per i giuristi, il confine si gioca tutto sul danno alla distintività: se un prodotto somiglia a un altro ma non utilizza loghi o elementi protetti, il margine di manovra resta ampio. Ma dal punto di vista culturale, l’effetto è chiaro: l’estetica del lusso è sempre più slegata dalla sua autenticità. Si può volere “lo stile Chanel” senza volere (o potere) Chanel.
Il dupe non pretende di ingannare. Anzi, spesso dichiara esplicitamente il proprio statuto di copia. È un gioco trasparente, in cui la somiglianza non nasconde la distanza. Ma è proprio in questa distanza che si apre una riflessione più ampia: se l’accessibilità è un reato simbolico, allora chi può davvero permettersi di essere “originale”?
Il falso non danneggia solo le vendite, ma mette in discussione l’intero sistema simbolico del lusso. Per questo i grandi brand hanno affinato strategie che vanno oltre le vie legali. Se negli anni Duemila si puntava sulle maxi-retate e i bollini olografici, oggi la difesa dell’originale passa soprattutto da due fronti: la tecnologia e la narrazione.
Da un lato, si sperimentano sistemi di autenticazione digitale: codici seriali tracciabili, blockchain applicata al fashion, etichette intelligenti. L’obiettivo non è solo bloccare la contraffazione, ma aumentare il valore percepito del prodotto, rendendo l’originale qualcosa di unico, anche nel tempo. Alcuni brand hanno persino avviato piattaforme proprie di resale certificato, per tenere sotto controllo il mercato secondario.
Dall’altro lato, i marchi cercano di riconfigurare il concetto di autenticità. Non si tratta solo di possedere l’oggetto, ma di entrare in una narrazione: chi compra originale, compra anche un frammento di storytelling, di esclusività, di identità visiva. Il lusso diventa un’esperienza “tracciata”, non solo un bene tangibile.
Ma proprio questa ossessione per l’autenticità finisce, a volte, per rendere il falso ancora più affascinante. Perché l’originale deve essere spiegato, giustificato, autenticato; il falso, invece, si racconta da solo.
In un’epoca in cui l’immagine precede l’esperienza, la distinzione tra vero e falso appare sempre più fragile. Il falso di lusso non è soltanto una questione giuridica, ma una lente attraverso cui leggere i meccanismi della moda, del desiderio, e della costruzione dell’identità.
Che si tratti di una copia da mercato parallelo, di un dupe virale su TikTok o di una parodia consapevole, il falso ci costringe a porci domande scomode: quanto conta ciò che è autentico? E chi decide cosa lo è davvero? In fondo, nella società della replica, l’originale è spesso solo il primo a farsi copiare.