Il diritto tributario è servito, con il concordato preventivo giurisprudenziale
di Nereo Seppia
Alla cerimonia d’inaugurazione dell’Anno giudiziario tributario 2025, in una Montecitorio inamidata e ben stirata, il viceministro Leo ha detto – con tono rassicurante – che sarebbe cosa buona e giusta “trovare conforto” da parte dei giudici sulla volontà del legislatore.
Avete capito bene: conforto. Non verifica, non controllo, non interpretazione. Conforto. Come se il diritto fosse un termosifone.
La proposta è semplice e disarmante come una battuta da pranzo aziendale: “facciamo dei bei tavoli di confronto, magari dei seminari, in cui si anticipa quel che il governo vuol fare, e i giudici - possibilmente sorridenti - ci danno il loro benestare”.
È la giustizia all’italiana 5.0: già interpretata, già benedetta, già metabolizzata.
Ma c’è qualcosa di geniale, quasi commovente, in questo tentativo di rendere la giurisdizione tributaria una sede succursale del MEF. La separazione dei poteri? Roba da costituzionalisti frustrati. Il principio di legalità? Un fastidioso orpello. Qui si fa sul serio: il diritto deve accompagnare il potere, non contrastarlo. Un diritto bonsai, potato secondo la sagoma dell’esecutivo.
E pazienza se la Cassazione ogni tanto si ostina a ragionare con la propria testa, o se qualche giudice tributario si avventura nel territorio minato del garantismo. Quei comportamenti - dice Leo con garbo - “non sono in linea con gli obiettivi del governo”, che tradotto a beneficio dei meno maliziosi vuole dire: “il giudice è bravo e bello, ma solo se non disturba il manovratore”.
Il pubblico applaude con discrezione. I camerieri fanno avanti e indietro con bicchieri d’acqua e qualche sorriso di plastica. I professionisti presenti ne approfittano per chiedere ai funzionari dell’Amministrazione finanziaria cosa pensano e che valore hanno per gli Uffici le Faq. Ma è come chiedere a un oste com’è il vino: a un tavolo si dice che non valgono nulla, ad un altro tavolo (sperando che quelli affianco non sentano) si dice che sono fondamentali per orientare i contribuenti.
In prima fila, nascosto tra una toga e una cravatta istituzionale, Massimo Rinaldi ascolta in silenzio, il volto serio, lo sguardo assente. Il giorno prima dell’inaugurazione ha discusso in Corte di giustizia tributaria l’ennesimo ricorso avverso un atto di recupero per un credito d’imposta ritenuto inesistente, non accolto dal giudice perché “non confortato da finalità agevolative coerenti con il dettato normativo”. Una formula gelida. Ma oggi, pare, si cerca il calore delle conferme, non la freddezza della legalità.
Rinaldi si sporge appena, abbassa la voce e mormora a un collega di Milano:
«Hai sentito? Siamo passati dal principio di legalità al principio di compatibilità emotiva. Il diritto non deve più convincere, basta che rassicuri». Il collega annuisce, senza dire nulla. L’aria è troppo densa di consensi per permettersi il dissenso.
Non è il primo né l’ultimo a pensarla così. Il sogno segreto di molti è una giurisprudenza gentile, concordata, a chiamata, come il lavoro flessibile. Una giurisprudenza con il badge e l’allineamento automatico. Del resto, se si può anticipare il futuro con l’intelligenza artificiale, perché non farlo anche con i giudici? Basta pre-caricarli con qualche schema PowerPoint.
C’è da chiedersi però: chi deve adattarsi a chi? Il giudice alla legge, o la legge al giudice? Oppure entrambi alla narrazione ministeriale del gettito?
Si finisce così in un paradosso che avrebbe fatto sorridere perfino Montesquieu: un potere legislativo che cerca il favore del giudice prima di scrivere la norma, e un giudice che dovrebbe garantire il legislatore, invece che il contribuente. È l’inizio di una nuova stagione della fiscalità italiana: il CPG, ovvero il Concordato Preventivo Giurisprudenziale.
Alla fine dell’intervento, la platea si alza in piedi. Applausi composti. Le toghe si stringono le mani, i funzionari si scambiano pacche sulle spalle. Qualcuno si avvicina a Leo per complimentarsi: «finalmente un approccio pragmatico».
Rinaldi si allontana da solo, attraversa i corridoi del Transatlantico come un contabile capitato per sbaglio a un convegno di illusionisti. Si ferma davanti a una finestra, guarda fuori. Roma è grigia, come un faldone senza data. E sussurra tra sé: “Finché il diritto dovrà “confortare” il potere, il contribuente dovrà solo sperare di non finire troppo presto nel sonno della ragione”.