“Hey, socio!” Te lo dicono sorridendo, con quella complicità che sembra promettere qualcosa di solido. Quando i giovani se lo dicono, recuperano il senso vero della parola: non è un saluto, è un patto. La promessa che insieme si è più forti.
Poi arriva il momento di firmare dal notaio. E la domanda diventa: quanto resta di quella complicità quando la penna scende sulla carta?
Il codice civile ti spiega cos’è un socio dal punto di vista legale. Su tutto il resto, su quello che conta davvero, silenzio totale. Nessuno ha mai scritto il codice non scritto del socio. Quello che dovrebbe esistere, ma non esiste. Proviamo a immaginarne alcuni punti.
Articolo 1: Il socio dice la verità
Il codice non scritto dovrebbe essere chiaro: il socio non nasconde informazioni importanti agli altri soci. Non perché sia legalmente obbligato, ma perché una società non può funzionare sulla menzogna.
Se sai di un’opportunità, di un problema, di un rischio che riguarda la società, i tuoi soci devono saperlo. Prima, non dopo. Non quando è comodo dirlo, quando tutto è già deciso, o quando il danno è fatto.
La trasparenza non è un optional. È il fondamento. Se manca, la società è già morta, anche se sulla carta funziona ancora.
Articolo 2: Il socio non va contro le decisioni della società
Quando il voto in assemblea va contro di te, la legge dice che devi accettare la decisione della maggioranza. Sì, tecnicamente. Ma cosa significa “accettare”?
Esiste un’accettazione sincera, quella che dice: “Ok, la maggioranza ha deciso così, procediamo.” Ed esiste un’accettazione di facciata, quella che dice: “Ok, procediamo”, e poi fa tutto il possibile per fare fallire la decisione.
Il socio che tradisce così è il peggio. Vota contro in assemblea, perde, e poi decide di non cooperare, di fare ostruzionismo, di diffondere dubbi tra i dipendenti, di rallentare tutto. È legalmente coperto? Sì, difficilmente puoi provare il tradimento in tribunale. Ma è moralmente inaccettabile.
Il codice non scritto dovrebbe dire: il socio che ha perso il voto continua a lavorare per implementare la decisione con lo stesso impegno che avrebbe messo se avesse vinto. Non è entusiasta? Probabilmente no. Ma collabori comunque, perché la società è più grande del tuo ego.
Una società che funziona è una società dove i soci sanno perdere. Dove il dissenso si esprime in riunione, non in un boicottaggio silenzioso.
Articolo 3: Il socio comunica
Il codice civile obbliga al rendiconto annuale. Bene. Ma la comunicazione tra soci non è annuale, è quotidiana. Eppure, nessuno la regola.
Quanti conflitti nascono perché un socio scopre da terzi cosa sta succedendo nella società? Quante brutte sorprese vengono rivelate solo quando è troppo tardi?
Un socio non è uno che riceve i rendiconti a fine anno e basta. Un socio è una persona che cammina insieme a te nella direzione della società. Se non sa dove state andando, come fa a camminare?
La parte che manca
Al di là di questi tre pilastri c’è una regola ancora più profonda. Una che non si può nemmeno scrivere, perché è il contrario della legge: è la geometria dei complementi.
Una società non funziona in genere quando i soci sono uguali. Funziona quando sono diversi. Quando le debolezze di uno sono compensate dalle forze dell’altro. Quando uno arriva dove l’altro non arriva.
Questo è il vero segreto del socio. Non sta nella firma. Sta nella complementarità.
Che sia in termini di competenze, uno sa vendere e l’altro sa produrre. Oppure di temperamento, uno è conservatore e l’altro è visionario. Oppure di rete, uno conosce i fornitori e l’altro conosce i clienti. O ancora di tempo, uno può stare in fabbrica e l’altro può stare negli uffici.
La regola che non è scritta da nessuna parte è questa: il socio deve dare alla società quello che il suo socio non può dare. Non quello che è più conveniente per lui, non quello che lo mantiene al centro del potere, ma proprio quello che solo lui può portare e che all’altro manca.
E qui bisogna avere il coraggio di dire una cosa che suona quasi brutale: non tutti i soci devono restare per sempre.
La complementarità ha un tempo. A volte serve un socio per una fase specifica. Per lanciare un prodotto, per entrare in un mercato, per superare una crisi. Quel socio porta quello che manca in quel momento. Ma quando quella fase finisce, la sua presenza può diventare un problema invece che una risorsa.
Gianluca Iannetti, sempre su Blast, ha scritto un pezzo illuminante su come funzionano le partecipazioni auto-estinguibili. Quote o azioni che si spengono da sole al verificarsi di una condizione o alla scadenza di un termine. Come scrive lui, “non è una follia teorica: Assonime, con ‘Il Caso n. 6/2023’, ha riconosciuto la piena legittimità di queste clausole”. Non è fantascienza, è prassi notarile consolidata. È la possibilità di far entrare un socio sapendo già quando e come uscirà.
Pensiamo a un CFO che entra per cinque anni con una quota rilevante, porta competenze, cambia il modo in cui l’azienda guarda i numeri, e poi esce. Non perché sia andato male, ma perché era questo il patto dall’inizio. Oppure a un investitore industriale che finanzia un progetto specifico e poi si ritira quando il progetto è completato. O ancora a un ramo familiare che deve stare dentro la società per ragioni successorie, ma solo fino a un certo momento.
Sono situazioni concrete, che le imprese vivono ogni giorno. E che troppo spesso diventano guerre societarie perché nessuno ha avuto il coraggio di scrivere dall’inizio che quel socio non era per sempre.
Invece si può fare. Si può progettare una timeline societaria. Iannetti la chiama così: “non stai solo scrivendo uno statuto, stai progettando una timeline”. E ha ragione. Puoi dire: tu entri oggi, contribuisci per il tempo che serve, e poi esci secondo regole che scriviamo adesso, quando i rapporti sono ancora buoni e nessuno sta cercando di fregare l’altro.
Questo non tradisce il codice non scritto del socio. Lo completa. Perché riconosce che la complementarità vera non è solo spaziale, è anche temporale. C’è chi serve oggi e chi servirà domani. E avere questa chiarezza non è cinismo, è onestà.
Forse quel “hey socio” che si dicono i ragazzi oggi, tra qualche anno non lo sarà più. E va bene così. Perché è importante distinguere il socio che vorresti per la vita da quello che vuoi per un progetto. Uno non vale meno dell’altro. Semplicemente hanno funzioni diverse, tempi diversi, e dovrebbero avere anche statuti diversi.
Questo non significa tradire quella complicità iniziale. Significa rispettarla abbastanza da non costringerla a durare oltre il suo tempo naturale. Perché, quando i giovani si chiamano “socio” con quel sorriso complice, stanno riconoscendo una cosa precisa. Non stanno dicendo “siamo uguali”. Stanno dicendo “insieme siamo completi”. Dove uno vacilla, l’altro sorregge. Dove uno fatica a vedere, l’altro illumina la strada. E a volte, questa completezza ha senso per un progetto, non per tutta la vita dell’impresa.
Il vero contratto del socio non è quello che firmi dal notaio. È l’accordo silenzioso su cosa farà ognuno, quello che l’altro non può o non vuole fare. È il riconoscimento che le tue debolezze non sono un problema da risolvere da solo, ma il punto esatto dove entra il tuo socio.
Il codice civile non dice questo, perché il codice civile non sa cosa significhi davvero stare insieme. Ma chiunque abbia visto una vera partnership sa che è esattamente così.
Non è poesia. È geometria pura. Due forme che da sole non possono diventare un cerchio perfetto, ma che messe insieme, con le loro differenze, i loro angoli diversi, i loro pieni e i loro vuoti, creano qualcosa di nuovo. Qualcosa che nessuno dei due avrebbe mai potuto creare da solo.
Ecco il codice non scritto. Non è una regola, è un riconoscimento. Il riconoscimento che il socio non è una persona che scegliamo per quello che è, ma una persona che scegliamo per quello che non siamo. E a volte, per quello che non siamo in quel momento specifico della vita. Perché tutto cambia, anche noi stessi.


