Il capo è un algoritmo? Così il lavoro cambia (e la legge rincorre)
di Claudio Garau
Negli ultimi anni, parlare di algoritmi non è più soltanto una questione da esperti di tecnologia o ingegneri informatici. Non è solo quella “brutta” parola che a molti ricorda le impegnative lezioni di matematica dei tempi della scuola: l'algoritmo è entrato nella nostra vita quotidiana e nei luoghi di lavoro. Della sua ascesa si è occupata anche l'OCSE, che poco tempo fa ha pubblicato un report dal titolo “Algorithmic management in the workplace”. Ma, nell'era in cui sempre più cose e attività vanno verso la piena automatizzazione, la domanda sorge spontanea: cosa succede quando è un algoritmo a decidere chi lavora, come lavora, quando lavora e perfino se sta lavorando bene?
È questo il cuore del cosiddetto management algoritmico: un modello di gestione e controllo del personale che - in modo parziale o totale - delega alle macchine, o meglio ai software, all'IA e ai sistemi di monitoraggio, compiti un tempo riservati ai dirigenti o ai responsabili HR. Il lavoro umano viene (ri)organizzato, controllato e valutato da strumenti digitali automatizzati, costituendo - per gli “umanisti” puri - un pericolo per società nel suo complesso, perché l'algoritmo può trasformare il lavoratore in una variabile misurabile e il lavoro in una fredda sequenza di dati da ottimizzare. Al contempo, il management algoritmico è un radicale cambiamento non solo tecnologico, ma anche culturale. Una trasformazione silenziosa - ma profonda e ineluttabile - dei meccanismi di potere nei luoghi di lavoro.
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