I modelli produttivi: l’origine come elemento fondante della nuova tassazione doganale
di Ettore Sbandi
Con la nuova tassazione di confine imposta dall’amministrazione USA e, oggi, in corso di trattative e definizioni sul piano internazionale, si rimodella lo scenario globale. Per le imprese che – per ragioni intrinseche o storiche – possono essere flessibili e dinamiche, il cambio delle catene di produzione ed approvvigionamento si può rivelare determinante nella mitigazione degli impatti daziari.
La scelta del sistema doganale USA, infatti, è al momento basato su una duplice selettività: una afferente alla classificazione doganale delle merci ed un’altra afferente all’origine non preferenziale. Sulla base di questi due fattori, si applicano i dazi ad valorem.
Oltre alla mappatura delle voci doganali, in molti casi poco dubbie e flessibili (si pensi ai prodotti alimentari di base o non processati, ma anche calzature, prodotti tessili, macchinari o autovetture, solo per fare alcuni esempi), una partita rilevante si gioca sull’origine doganale che, per definizione, è variabile, nel senso che essa è determinata a fronte di condizioni date ed oggettive, la cui risultante è il “made in” delle merci. Al variare di tali condizioni, dunque, varia l’origine dei prodotti; al variare di questa origine, ergo, varia la tassazione di confine.
Come è noto, il “made in” delle merci è determinato secondo i principi generali WTO, universalmente condivisi ma localmente variabili, per cui un bene è originario del luogo in cui esso è interamente ottenuto, oppure, se alla sua produzione hanno partecipato beni di diversa origine, il bene risulta originario presso il luogo in cui è intervenuta l’ultima trasformazione sostanziale, economicamente giustificata. Determinare l’origine di un bene, dunque, muove da un’analisi fattuale e, insieme, normativa, adattando la prima alla seconda per ottenere i processi che consentono di avere, come risultante, l’origine ambita (che, tradizionalmente, per l’Italia coincide, per i prodotti che ne hanno appeal, con la legittima apposizione dell’etichettatura made in Italy).
La questione è, tuttavia, altamente complessa, perché, anzitutto, occorre una profonda conoscenza delle regole US, che solo un network radicato può garantire. Le regole di origine non preferenziale, infatti, non si basano (solo) su principi codificati, come nell’UE, o di successiva elaborazione giurisprudenziale generale, perché esse seguono il diritto comune americano. In buona sostanza, per determinare il made in delle merci, si può ragionare per analogia con le note regole UE, ma in molti casi (prodotti speciali, semiconduttori, tessuti, assemblaggi, kit, ecc..) il doppio check è fondamentale.
La questione, poi, si complica ulteriormente allorquando venga in considerazione l’analisi afferente alla diversa origine che può qualificare i prodotti, che si appaia alla prima, senza sostituirla, ossia l’origine preferenziale. In presenza di Accordi di Libero Scambio, è infatti possibile prescindere dalla tassazione standard per riconoscere trattamenti daziari di favore (zero rate o riduzione) per beni interamente ottenuti o sufficientemente lavorati in una delle due parti “accordiste”.
La tematica dell’origine preferenziale, di base, non attiene pienamente alla nuova tassazione USA, che è basata sul sistema di origine non preferenziale, seppure in quota parte rilevino per le produzioni messicane o canadesi (accordi USMCA), dove il calcolo dei dazi segue criteri selettivi per le merci riconducibili alle regole di preferenza dei detti accordi. Ma vale ancora di più per le imprese nazionali che, nella logica di mitigazione dei dazi USA, possono spingere maggiormente nella ricerca di fornitori preferenziali, per ridurre i dazi sulle materie prime, oppure su nuovi mercati di sbocco, favoriti dall’assenza sostanziale di imposte doganali.
Questo percorso, naturalmente, conduce a riflessioni sulla tassazione e sui relativi impatti sulla supply chain, perché, nel caso USA, la tassazione – come ormai noto – segue l’origine, per cui un bene cinese, per fare l’esempio più estremo, in USA sconta un dazio aggiuntivo del 125 per cento a prescindere dalla provenienza del bene e, dunque, anche se lo stesso è stato precedentemente importato nell’UE e, da qui, è stato rispedito a destino. In questa logica, l’utilizzo di regimi sospensivi, depositi e free zone è un’altra chiave di gestione e resilienza, seppure vincolata a logiche normative americane che occorre valutare con attenzione e competenza.