“La giurisprudenza di questa Corte è costante nel senso che la prova del diritto alla deduzione di costi è a carico del contribuente e ciò sia con riferimento al criterio che chi afferma un fatto costitutivo di un diritto lo deve poi provare e sia con riferimento al criterio di vicinanza della prova” (Cassazione, 22 gennaio 2025, n. 1466: non si contano i precedenti in tal senso).
Si potrebbe dire: “due fraintendimenti in un colpo solo” (parafrasando il “due miserie in un corpo solo” di Gaber in “Qualcuno era comunista”).
Per il tema (quello della deduzione dei costi e dell’onere probatorio, non, chiaramente, Gaber) non si vuole nemmeno – perlomeno inizialmente – scomodare la nuova (anche se un po’ di tempo è passato) norma sull’onere della prova in ambito tributario (articolo 7, comma 5-bis, del Dlgs 546/1992). Norma che, peraltro, l’ultima giurisprudenza di legittimità considera come “nuova”, nel senso di innovativa, attribuendone rilevanza sostanziale (si veda più oltre).
Partiamo, comunque, dal primo fraintendimento: l’onere di prova sui costi d’impresa ricade sul contribuente. La Cassazione – e quindi, ovviamente, così l’Agenzia delle entrate – ha sempre sostenuto che nella determinazione del reddito d’impresa l’onere di provare la sussistenza delle componenti di reddito e dei requisiti di certezza e determinabilità delle stesse “incombe sull’Amministrazione finanziaria per quelle positive e sul contribuente per quelle negative” (qualcuno ricorderà che in passato la stessa Corte cercò anche di individuare, sempre al fine della ripartizione dell’incombenza dell’onere probatorio, un’inesistente e fantasiosa distinzione tra costi necessari e non necessari alla produzione del reddito…). Tali conclusioni vengono fatte derivare dalla previsione dell’articolo 2697 del codice civile (“chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”) – prevalentemente ritenuta applicabile al diritto tributario, almeno fino alla novella della L. 130/2022 -, assimilando la deduzione di un costo come fatto costitutivo del diritto alla sua deduzione. Oppure come fatto impeditivo, modificativo o estintivo, sempre nell’ottica dell’articolo 2697 cod. civ..
Ebbene, se nell’ottica dell’articolo 2697 una simile lettura può essere accettata – va accettata - in presenza di un onere deducibile/detraibile (articoli 10 e 15 Tuir, per capirci) distinto dalla fonte di reddito, non può invece essere minimamente ammessa, per plastiche ed evidenti ragioni, nel concetto – chiaramente unitario - di reddito d’impresa, nel quale “l’imputazione di un costo …si presenta quale passaggio necessario ai fini della rappresentazione unitaria di un risultato gestionale attribuibile alla specifica fonte produttiva (Tinelli).
In sostanza, la determinazione del reddito d’impresa è un valore netto (come sa chiunque si è anche solo marginalmente approcciato alle “cose tributarie”), dato dalla contrapposizione di componenti positivi e negativi. La Cassazione non considera, in pratica (ed è un errore davvero “di base”), che il reddito d’impresa non è composto – chiaramente - soltanto dai componenti positivi, e che la deduzione di un componente negativo di reddito non è una norma di favore, così da renderla assimilabile ad un diritto (nell’ottica sempre dell’articolo 2697 cod. civ.) attribuito al contribuente. La deduzione di un costo rappresenta invece quel passaggio preliminare e necessario per giungere alla determinazione del risultato – redditualmente rilevante - dell’attività d’impresa.
In definitiva, già prima della novella della L. 130/2022, si poteva affermare che la pretesa che ricadesse sul contribuente l’onere di provare, ad esempio, l’inerenza di un costo d’impresa, risulta(va) un (grave) errore concettuale. La deduzione di un costo – lo si ripete – non può equipararsi all’esercizio di un diritto attribuito al contribuente, ma rappresenta quel fondamentale procedimento “prodromico” che consente di pervenire al presupposto di imposizione.
L’altro fraintendimento è quello del cosiddetto criterio della “vicinanza o prossimità della prova”, anch’esso assunto in più occasioni (come nella pronuncia citata all’inizio) dalla giurisprudenza tributaria di legittimità. Occorre rilevare che il principio (giurisprudenziale) della vicinanza della prova già dal punto di vista civilistico risulta un criterio eccezionale e di chiusura, che può essere utilizzato solo quando strettamente necessario ad evitare un abuso dell’articolo 2697 del cod. civ.. Difatti, “la prossimità/vicinanza della prova trae le conseguenze dalla peculiare natura di fattispecie in cui di una ordinariamente agevole possibilità di fornire la prova fruisce una parte soltanto” sicché si realizza “una disparità tra i litigatores che conduca lo strumento processuale a fuoriuscire dalla necessaria parità funzionale” (ex multis, Cass., sez. III, n. 13851/2020). In sostanza, il principio di vicinanza della prova, secondo la giurisprudenza di legittimità (civilistica), si giustifica soltanto in casi estremi: quando, per lo più, si realizza un abuso dell’articolo 2697 cod. civ. a scapito di una delle parti, così da rendere impossibile o troppo difficile l’esercizio dell’azione in giudizio, in quanto si verifica “l’impossibilità dell’acquisizione simmetrica” dei mezzi di prova (Cassazione,sez.1, 13853/2019).
Muovendo da questa ricostruzione, appare evidente che la giurisprudenza tributaria di legittimità ha il più delle volte impropriamente fatto ricorso al principio di vicinanza della prova (ad esempio, in materia di transfer pricing). Un conto infatti è l’ambito civilistico, nel quale la limitatezza degli strumenti di acquisizione delle prove che risultano nella disponibilità dei privati, perlomeno in relazione a fatti estranei alla sfera giuridica e/o materiale delle parti, può giustificare l’”eccezionale deroga” all’articolo 2697 cod. civ., altro è l’ambito della materia tributaria, dove non si riscontra più quell’inferiorità conoscitiva dell’Amministrazione rispetto al contribuente, che potrebbe, in taluni casi, giustificarla. Infatti, già da tempo, l’Agenzia dispone di mezzi conoscitivi che consentono di ricostruire la quasi totalità dei fatti rilevanti attribuibili al contribuente sotto il profilo tributario. Se poi questi poteri conoscitivi l’Amministrazione non li utilizza, questo è un altro discorso, ma ciò non può portare a derogare il disposto dell’articolo 2697 del cod. civ..
Ciò porta a ritenere che anche prima della previsione del comma 5-bis dell’articolo 7 del Dlgs 546/1992 il criterio della vicinanza della prova non poteva essere utilizzato dall’amministrazione per un fatto “ordinario”, quale la deduzione di un costo.
A maggior ragione dopo l’introduzione della novella, la quale ha – chiaramente – fissato una regola “propria” dell’onere probatorio nel diritto tributario, distaccandosi dall’articolo 2697 del codice civile.
Norma, quella dell’articolo 7 comma 5-bis, che, peraltro, la stessa Cassazione – come si è riportato all’inizio – ultimamente considera “innovativa”. Il che significa che anche il giudice di legittimità riconosce (indirettamente) che qualcosa è cambiato. Non, però, per la deduzione dei costi, per i quali – per le elementari ragioni illustrate – già prima funzionava così (nel senso che l’onere probatorio incombeva sull’Agenzia).