Gli stranieri pagano le nostre pensioni? I numeri Inps raccontano un'altra storia
di Claudio Garau
Da anni, in Italia, circola un mantra quasi rituale: “Gli immigrati ci salveranno le pensioni” oppure “Gli stranieri che arrivano in Italia saranno (anche) una risorsa fondamentale per il sistema previdenziale e la tenuta dei suoi conti”. Frasi che, se pronunciate da un giurista, dovrebbero avere un fondamento matematico solido. Invece, analizzando gli ultimi dati forniti dall’Osservatorio sugli stranieri di Inps, e i numeri sul lavoro di chi proviene dall’estero, emerge un quadro molto meno ottimistico e rassicurante delle appena menzionate affermazioni. Sicuramente più complesso di quanto la retorica ci voglia far credere.
Ma provare a orientarsi tra le cifre della previdenza, sebbene appaia quasi come un’avventura nella giungla, è pur sempre un esperimento utile a tentare di comprendere meglio la situazione reale, al di là delle dichiarazioni politiche sulla questione immigrazione. È cosa nota: in riferimento agli stranieri spesso si tende a semplificare o a strumentalizzare i dati, trasformando scenari molto articolati in slogan immediati, che suonano convincenti almeno per una parte dell’elettorato. Ma che raramente raccontano tutta la verità.
Secondo le cifre Inps più recenti, gli stranieri che percepiscono una pensione in Italia sono circa 378 mila, con un incremento del 18,5% rispetto all’anno precedente. Altri 252 mila persone, invece, ricevono prestazioni a sostegno del reddito. A ben vedere, una quota significativa delle pensioni percepite dagli stranieri non è di natura previdenziale - cioè non deriva da contribuzione versata - ma assistenziale, quindi finanziata dalla collettività o fiscalità generale. Tuttavia, esiste anche una parte di pensioni previdenziali che gli stranieri maturano regolarmente, tramite lavoro e contributi versati nel nostro Paese.
Indubbiamente, quelle fornite dall’ente previdenziale sono cifre e percentuali significative perché riguardano tutti i lavoratori non italiani iscritti all’Istituto di previdenza (la stragrande maggioranza dei lavoratori stranieri regolari, esclusi autonomi e professionisti). Proprio perché significative, in questi giorni sui quotidiani non mancano coloro che concludono che - almeno fino a questo momento - sono gli italiani a finanziare pensioni e sussidi, per gli stranieri. E lo farebbero molto più di quanto questi ultimi contribuiscano alle casse di Inps.
A dire il vero, i dati ufficiali dell’ente previdenziale lasciano ben poco spazio a interpretazioni o a dichiarazioni dal retrogusto “partitico”. Il reddito medio dei lavoratori stranieri regolari, comunitari e non comunitari, si attesta - lo dice Inps - attorno ai 16-16,7 mila euro annui. Calcolatrice alla mano, i contributi previdenziali sono pari a circa 5.500 euro e l’Irpef a 1.500-1.600 euro all’anno, al netto delle detrazioni. Cifre che, moltiplicate per i circa 4 milioni di lavoratori stranieri attivi, determinano un gettito totale di circa 28 miliardi di euro. Tuttavia, solo per sanità e pensioni, lo Stato spende oltre 500 miliardi l’anno.
A questi numeri di certo non “incoraggianti” si somma un interessante rapporto del Cnel, che mette insieme dati noti e meno noti sui saldi migratori degli under 35 nel periodo 2011-2024. Il bilancio dice che, in questo periodo, 486mila under italiani sono espatriati verso i principali Paesi europei o gli Usa, mentre solo 55mila giovani hanno fatto il percorso inverso. Un rapporto che, in gergo si chiama “Indice di simmetria dei flussi migratori”, e che è, impietosamente, di nove a uno.
Inoltre, tra i grandi del continente, l’Italia è il paese con la quota più bassa di stranieri in professioni intellettuali, scientifiche e specializzate, circa il 2%. Certamente questa percentuale così bassa fa rima con gli ultimi dati forniti dall’Osservatorio Inps e conferma lo scenario attuale in cui l’immigrazione che l’Italia attrae è prevalentemente a bassa qualificazione, poco stabile, scarsamente contributiva e dunque incapace, almeno per ora, di incidere in modo strutturale sulla sostenibilità del sistema previdenziale.
I numeri e dati in oggetto ci portano ben lontano dalle speranzose affermazioni che, in merito alla capacità contributiva degli stranieri, l’ex presidente Inps Tito Boeri fece una decina d’anni fa. In verità, lo scarso apporto alle casse Inps paga anche il prezzo del lavoro nero: in settori a forte rischio come agricoltura o lavoro domestico, i salari medi - ci informa lo stesso ente previdenziale - scendono sotto i 10 mila euro annui. Il sommerso è diffusissimo: centinaia di migliaia di lavoratori non versano contributi e sono ignoti al Fisco, pur usufruendo dei servizi pubblici.
In passato, in un’audizione alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema di accoglienza dei migranti, Boeri sosteneva che gli stranieri regolari “hanno versato più contributi sociali di quanto ricevono in pensioni e altre prestazioni sociali”. Rappresenterebbero, quindi, un’opportunità per Inps e non sarebbero - quindi - un costo, ma un elemento positivo per la salvezza del nostro sistema previdenziale.
A parere di chi scrive, questa è però una lettura parziale dei dati, smentita oggi dalla realtà e che omette dettagli fondamentali. Infatti, Boeri considerava solo gli immigrati regolari, escludendo quelli in nero e i richiedenti asilo. Al contempo, non veniva data la giusta importanza al fatto che il sistema pensionistico italiano è a ripartizione: i contributi versati oggi diventano pensioni domani. Quindi, anche se un immigrato regolare versa contributi oggi, questi serviranno a pagare le pensioni di chi è già pensionato. Non “salveranno” immediatamente il sistema.
Come rimarcato dall’Inps, la maggior parte dei lavoratori stranieri ha redditi bassi e, di conseguenza, anche le pensioni future saranno presumibilmente basse, tanto da richiedere integrazioni da parte dello Stato. Non solo. I dati dell’ente previdenziale suggeriscono che le famiglie di immigrati in Italia presentano un’alta incidenza di povertà assoluta e che, verosimilmente, non potranno sostenere - con impieghi precari o stagionali e contribuzioni ridotte - le pensioni degli altri. Anzi, sul lungo periodo rischiano di essere tra i principali destinatari di sostegno pubblico.
Il meccanismo di solidarietà intergenerazionale e previdenziale tra contribuenti italiani e contribuenti stranieri si inceppa, perché - se da un lato - l’immigrato beneficia di sanità, scuola e servizi sociali finanziati dalla collettività, dall’altro il peso fiscale finisce per gravare, inevitabilmente, sui vari milioni di contribuenti italiani “pieni”.
Il sistema di welfare, dalla sanità alle pensioni, appare fortemente sbilanciato perché l’apporto contributivo degli stranieri (comunitari e non) è - all’oggi – non in grado di sostenerlo a sufficienza. Anzi, al pari di non pochi italiani con carriere discontinue, le loro pensioni future saranno modeste e lo Stato si troverà costretto a integrare gli assegni.
Non è questione di retorica o di polemica politica, o peggio ancora un argomento da simil-propaganda elettorale. Più che un supporto al sistema, il quadro e i numeri forniti da Inps ci suggeriscono che gli immigrati rappresentano - almeno per il momento - un costo netto per la collettività, soprattutto considerando sanità, scuola e servizi sociali. Certamente è una severa e dura chiave di lettura, ma calibrata sulla realtà e orientata, con disillusione, agli scenari futuri. Sono elementi che, senza semplificazioni, pregiudizi o schieramenti verso questo o quel partito, ci invitano a riflettere come cittadini, come lavoratori e come contribuenti.
Perciò, sostenere che gli stranieri “ci pagheranno la pensione” è, allo stato attuale, una affermazione fuorviante, una boutade utile forse a semplificare il dibattito pubblico, ma lontana dalla fotografia reale dei numeri e delle dinamiche demografiche, lavorative e previdenziali del Paese.
Con un po’ di pensiero laterale, è giusto concludere che un’Italia che invecchia ha certo bisogno di forza lavoro e contribuenti. Ma non si può vedere l’immigrazione come una sorta di panacea.
C’è una soluzione? In uno scenario come questo, pare una domanda coraggiosa e quasi sfrontata. Un esercizio accademico. A parere di chi scrive, una risposta matura non potrebbe che imporre un approccio multidimensionale, il quale combini riforme previdenziali di ampio respiro, politiche del lavoro concrete, investimenti nella natalità e strategie di lungo periodo, piuttosto che affidarsi a un unico “rimedio” demografico.
È chiaro, il rischio di finire in una sorta di “coperta corta”, dove curare un fattore impedisce di intervenire adeguatamente sugli altri, è altissimo. Ma non basta, da sola, la gestione sostenibile dei flussi migratori, perché - al contempo - sarebbero necessari interventi coordinati sull’occupazione, previdenza, famiglie e formazione. Usando un cauto condizionale, e a voler tacer del ruolo pur primario della previdenza complementare, l’arduo e lungimirante obiettivo del legislatore dovrebbe essere quello di creare nuove occasioni di lavoro stabile, salari dignitosi e un’integrazione reale dei lavoratori stranieri nel sistema contributivo (anche grazie al riconoscimento delle qualifiche). Combattere con ancor più efficacia il lavoro nero in ogni sua manifestazione e premiare le aziende “virtuose”.
È vero: sembra quasi una chimera ma, permanendo lo scenario tracciato da Inps, il mantra di Boeri non resterà che una costosa illusione per i contribuenti alle prese con un arzigogolato e disorientante sistema previdenziale. Un coacervo di percorsi di accesso alla pensione che, a volte, sembrano più una “lotteria” regolata dal caso che un impianto normativo fondato su equità, trasparenza e prevedibilità.
La narrativa “gli immigrati finanziano noi” che stanno veicolando certi articoli giornalistici e certi opinionisti televisivi e del web non è né completamente vera, né completamente falsa. C’è una complessità di dati che non consente una risposta semplice. Al fine di garantire la sostenibilità del sistema pur con l’invecchiamento demografico, il punto critico risiede nell’apporto costruttivo e “positivo netto” dei lavoratori immigrati, il quale dipende dalla continuità contributiva e da quanto effettivamente restano “dentro” ai meccanismi Inps. Se molti lavoratori immigrati fanno lavori stagionali, cambiano paese, non completano un percorso stabile, l’impatto sulle casse Inps sarà chiaramente più debole e limitato nel tempo.
In definitiva, se vogliamo che la previdenza italiana abbia garanzie di sopravvivenza, dobbiamo pensare non solo al numero di lavoratori, italiani o stranieri, ma alla qualità del lavoro, ai redditi reali e al rigoroso rispetto delle regole contributive. Solo così l’immigrazione potrà diventare davvero una risorsa e un’arma in più, e non un peso mascherato da promessa salvifica e dal retrogusto politico.


