Gli “accertamenti bancari” non esistono: i fraintendimenti della Cassazione (con postilla di Dario Deotto)
di Luciano Sorgato
La Cassazione continua a ribadire la natura di presunzione legale dei movimenti bancari (ex multis, ordinanza 4835 del 28 febbraio scorso).
Così testualmente (la Corte): «Qualora l'accertamento effettuato dall'Ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, l'onere probatorio dell'Amministrazione è soddisfatto attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti, mentre si determina un'inversione dell'onere della prova a carico del contribuente, il quale deve dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili, fornendo, a tal fine, una prova non generica, ma analitica, con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come ciascuna delle operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili (così Cass. T., n. 2928/2024)».
La Corte di Cassazione è dunque ferma nel configurare la movimentazione bancaria alla stregua di una presunzione legale relativa, con il diritto alla prova contraria esperibile da parte del contribuente, ma solo con il ricorso a fonti informative molto rigorose sul piano della trasparenza sia soggettiva che oggettiva delle singole operazioni di conto. Il supporto giustificativo deve, quindi, raccordarsi su base analitica e non per masse. La Corte di Cassazione non ha mai però dissipato i dubbi sollevati da autorevole dottrina in odine sia alla ricostruzione storica di tale prerogativa presuntiva e sia in ordine alla stessa lettera legislativa impiegata nelle norme di riferimento.
Circoscrivendo in questa sede l’indagine sulla versione letterale della norma, si sottolinea come la dottrina (A. Marcheselli, “Accertamenti tributari e difesa del contribuente. Poteri e diritti nelle procedure fiscali”, Milano 2010, Giuffrè Ed.) abbia sottolineato l’anomala prerogativa della prova bancaria la quale ricongiunge sia il fatto noto che il fatto presunto a configurazioni estremamente vaghe, così come il fatto indotto non apparerebbe proprio legislativamente individuato. Il primo (il fatto noto) sarebbe racchiuso nella formula “dati ed elementi” ricavati dalle indagini; il secondo invece manca del tutto in quanto non è per niente indicato, e il legislatore si è solo premurato che essi (i dati e gli elementi) siano “posti a base” delle rettifiche e degli accertamenti. Anche volendo ritenere, quindi, che il fatto noto rispetti in qualche modo il principio di legalità e precisione, necessario affinché si abbia una presunzione legale, non è invece sostenibile che tale meccanismo inferenziale prospetti una connessione con un punto d’arrivo (il fatto presunto), dal momento che i dati ed elementi vengono legislativamente raccordati solo con le ordinarie metodologie di accertamento e non con precisi componenti di reddito da ritenere, sulla sola base di automatismi legali, evasi al Fisco.
In altri termini, ed in piena rispondenza con le critiche dottrinali sopra esposte, se l’ineludibile paradigma di una presunzione di legge si fonda sulla coesione di un rapporto inferenziale tra un fatto noto ed un fatto indotto, allora un sintagma di legge che connette “dati ed elementi” alla “base di una verifica”, manca del tutto della rivelazione del fatto indotto. Infatti, la locuzione “alla base”, già in senso letterale (proprio come desumibile da qualsiasi vocabolario della lingua italiana) si raccorda con la parte inferiore di una qualsiasi struttura, sia essa di tipo materiale e sia essa di costruzione concettuale, per cui un testo legislativo così impostato risulta persino mancante degli ineludibili elementi per la configurazione della presunzione nel suo paradigma generale e non solo di quello più qualificato della presunzione legale.
Nel testo di legge di riferimento (articolo 32, comma 2, n. 2, del Dpr 600/1973) viene infatti ripetuto: «I singoli dati ed elementi risultanti dai conti sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli articoli 38, 39, 40 e 41». Tale inciso, proprio in base alla sua specifica dinamica letterale, riesce ad assumere solo il significato di un volano indiziario dell’azione di verifica e non la risultanza oggettiva finale dell’accertamento. “Porre a base di una certa metodologia accertativa” assume il solo significato semantico di fonte d’innesco della verifica, nel senso che essa può poggiare sull’impulso indiziario di una definita variabile (il silenzio causale delle operazioni bancarie), con un valore di prova però che, sempre sul piano letterale, rimane sprovvisto di autosufficienza. Ad altro epilogo esegetico si sarebbe pervenuti se la scrittura legislativa fosse stata del tipo: «I singoli dati ed elementi risultanti dai conti costituiscono la prova degli accertamenti previsti dagli articoli 38, 39, 40 e 41 se il contribuente non dimostra…». In tal caso sarebbe risultato inequivocabile il significato probatorio delle omissioni causali in ordine ai movimenti di conto.
Va anche sottolineato come dalla chiara mancanza di un autonomo metodo di accertamento rinvenibile nella verifica bancaria, la quale non risulta affatto legislativamente affrancata dalle specifiche dinamiche presuntive come legislativamente pensate a governo delle ordinarie istruttorie di cui agli articoli 38, 39, 40, 41, deriva la necessità che essa si coordini proprio con le loro specifiche prerogative indiziarie di presunzione semplice o legale. Trascurare l’evidenza di tale relazione (resa palese proprio dalla lettera di legge: «alla base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli articoli 38, 39, 40 e 41»), priverebbe di ogni valore interattivo la verifica bancaria con le norme richiamate, in manifesto spregio del primo criterio esegetico enunciato all’articolo 12 delle preleggi al codice civile.
La Corte di Cassazione che, con sentenze ormai sempre più stringate, insiste sulla natura di presunzione legale della prova bancaria, solo resistibile con un dettaglio analitico di riferimenti soggettivi e oggettivi e mai per masse, si tiene costantemente distante dallo spiegare come, ad esempio, si può conferire trasparenza a distanza di anni ad un complessivo incasso di 3.000,00 euro, speso per 700,00 euro in acquisti d’impresa e per 400,00 euro in spese personali e successivamente versato in banca per 1.900,00 euro. Non l’ha mai spiegato, semplicemente perché non si rende spiegabile in natura, ma ciò che è contra natura è persino l’antitesi del diritto sulla prova e non solo della presunzione legale.
Postilla (di Dario Deotto)
Saranno alcune decenni che si sostiene che gli “accertamenti bancari” non esistono e che le disposizioni in argomento (articolo 32 del Dpr 600/1973 e articolo 51 del Dpr 633/1972) non contemplano alcuna presunzione legale. Le norme in questione stabiliscono infatti che le risultanze delle indagini finanziarie vengono “poste a base delle rettifiche e degli accertamenti”. Il fatto che le operazioni finanziarie compiute dal contribuente siano “poste a base” delle rettifiche non può affatto portare ad affermare che l’ammontare delle stesse possa essere “tradotto” automaticamente in un maggiore reddito (o in maggiori operazioni imponibili IVA) di pari importo equivalente alle predette operazioni, che potrebbe portare ad affermare la valenza della previsione come presunzione legale. “Porre a base” significa che, sulla base del dato rinvenuto dall’Amministrazione finanziaria, ne possono derivare determinate conseguenze che non necessariamente equivalgono al dato di partenza. La locuzione “poste a base” rivela proprio la volontà del Legislatore di evitare la trasformazione degli elementi raccolti nell’attività istruttoria in prove di evasione.
Ma non solo. Il dato normativo degli articoli 32 del Dpr 600/1973 e 51 del Dpr 633/1972 stabilisce che le movimentazioni per le quali il contribuente non è in grado di fornire giustificazione sono poste a base di ben precise attività di rettifica ed accertamento, e cioè quelle disciplinate dagli articoli 38, 39, 40 e 41 del Dpr 600/1973 (per le imposte sui redditi) nonché dagli articoli 54 e 55 del Dpr 633/1972 (per l’Iva). Questo significa che i dati e gli elementi tratti dalle indagini finanziarie devono poi essere “canalizzati” all’interno delle specifiche disposizioni che disciplinano tali ultime rettifiche (tali modelli di accertamento). All’interno delle quali non si rinviene nessuna presunzione legale.
Non si può proprio – evidentemente – continuare a parlare (neanche al bar, con grandissimo rispetto per il bar) di “accertamenti bancari”, né di presunzioni legali. Purtroppo lo fa – quasi quotidianamente - la nostra Corte di Cassazione.