Il Trattamento di Fine Rapporto: lo conosciamo tutti, ma nessuno lo ama davvero. È quell’accantonamento che il datore di lavoro deve ai dipendenti e che, in teoria, dovrebbe rimanere custodito in azienda fino al giorno in cui verrà liquidato. In teoria, appunto. Perché nella pratica il TFR è spesso trattato come un salvadanaio da cui attingere, più o meno consapevolmente, quando serve liquidità immediata.
Un ripasso veloce: il TFR è una quota somma accantonata ogni anno e rivalutata, che spetta al dipendente al termine del rapporto di lavoro. Le regole sono chiare: non è un regalo, non è un fondo discrezionale, non è una gentile concessione. È un debito. Ma in Italia, soprattutto nelle piccole e medie imprese, le regole scritte e la pratica quotidiana viaggiano spesso su binari paralleli che non si incontrano mai.
E qui parte la metafora. Il TFR per le imprese è come il fumo per le persone.
Una sigaretta ogni tanto non ti uccide: allo stesso modo, se un’azienda attinge a una quota minima del TFR per tamponare un’emergenza momentanea, il danno è contenuto. È un vizio, certo, ma sopportabile.
Poi ci sono quelli che fumano dieci sigarette al giorno. Tradotto: l’imprenditore che utilizza metà del TFR dei propri dipendenti per alimentare il circolante. A quel punto il rischio cresce. Il respiro inizia a farsi corto: basta un licenziamento improvviso, un dipendente che decide di andarsene, e ci si trova con il fiato mozzo a correre dietro a liquidità che non c’è.
Infine, ci sono i pacchetti interi. E lì siamo nella dipendenza cronica: l’azienda che brucia tutto il TFR come se fosse cassa propria. Una specie di fumatore incallito, convinto che “a me non succederà mai nulla”. E invece il conto arriva, sempre. Perché il giorno in cui due, tre, dieci dipendenti decidono di voltare pagina, la liquidità necessaria per liquidare il TFR semplicemente non c’è. E a quel punto, più che fumo, ci sono fiamme.
Un altro aspetto cruciale è che il TFR non è un fondo elastico, ma un debito a tutti gli effetti. E come tutti i debiti, prima o poi si presenta alla porta. Il problema nasce quando le imprese lo trattano come una sorta di “riserva liquida permanente”: un’autoconvinzione pericolosa, perché in realtà si sta coprendo un buco con un altro buco. È un meccanismo che può andare avanti per anni, finché non arriva l’imprevisto – un’ondata di dimissioni, un contenzioso, o anche solo una stretta di liquidità bancaria. È in quel momento che l’illusione crolla e l’azienda scopre che quel denaro che pensava di avere a disposizione non era suo, ma dei dipendenti.
Eppure, nonostante i rischi evidenti, moltissime PMI italiane continuano a fumarsi il TFR come se nulla fosse. Perché? Perché l’accesso al credito è complicato, i margini sono ridotti, e spesso l’imprenditore si trova stretto tra fornitori da pagare e banche che chiedono garanzie. In questo contesto, il TFR diventa la sigaretta facile: pronta, disponibile, apparentemente innocua. Ma esattamente come il fumo, crea dipendenza. Una volta che inizi a usarlo per coprire la liquidità, diventa difficile smettere: il gesto si automatizza, diventa parte della gestione aziendale quotidiana.
C’è anche un paradosso tutto italiano: le imprese spesso si lamentano delle rigidità normative, dei costi del lavoro, delle scadenze fiscali, ma poi sono le prime a complicarsi la vita scegliendo la scorciatoia del TFR. Perché, parliamoci chiaro, se un’azienda si trova in crisi perché deve liquidare il TFR di due dipendenti, il problema non è il TFR, ma la struttura finanziaria dell’azienda stessa. E qui il vizio smette di essere solo un’abitudine e diventa un sintomo di malattia cronica.
Certo, va detto: se un’azienda fattura milioni e ha una struttura solida, il TFR di tre persone è un dettaglio. Ma nella stragrande maggioranza delle PMI italiane, dove i margini sono sottili come carta velina e l’equilibrio di cassa è sempre sul filo del rasoio, utilizzare il TFR come fumo da aspirare quotidianamente è pericoloso. Perché basta poco per mandare tutto in tilt.
E allora torniamo alla metafora iniziale: fumare è nocivo, lo sappiamo tutti. Ma c’è chi si illude che “solo una ogni tanto non fa nulla”, chi vive nel mezzo, e chi ormai non riesce a stare senza. Lo stesso vale per le imprese e il TFR. Il vizio della liquidità facile è seducente, ma prima o poi ti presenta il conto. E spesso lo fa nel momento peggiore, quando un’azienda dovrebbe invece mostrare solidità ai propri lavoratori.
Morale della storia: il TFR non è cassa, non è margine, non è un regalo che l’impresa può usare a suo piacimento. È un debito certo, solo differito nel tempo. Pensare di poterlo “fumare” senza rischi è un’illusione tossica. E come tutti i vizi, più lo si coltiva, più diventa difficile smettere.