Voce dotta recuperata dal latino fermentum, da una radice affine a fervère “bollire, essere in moto”.
Fermentum, nei primi secoli cristiani, designa la particola dell’Eucaristia, vista anche come veicolo di mutamento nell’esistenza dei credenti.
Potremmo disquisire della parola ed attraversare così discipline che vanno dalla storia alla scienza, passando talvolta per la filosofia oppure l’arte e la letteratura, perfetti involucri degli speciali fermenti culturali d’ogni tempo.
Termine antico, quindi, che in origine denota la trasformazione in positivo di alcuni cibi quando, in determinate condizioni, anziché andare a male, “fermentano” modificandosi positivamente. Mentre in passato se ne rileva il fenomeno attraverso l’osservazione delle caratteristiche bolle; l’interesse scientifico, in seno alla dietistica e più in generale all’alimentazione, attualmente consente di studiare con maggior accuratezza le peculiarità di microrganismi - quali batteri, enzimi e lieviti - coinvolti nella “fermentazione”. La loro attività consentirebbe infatti di sviluppare nutrienti, preservare dal deterioramento e rendere i cibi più digeribili ed assimilabili.
Purtroppo, la rilevanza di queste conoscenze, ancestrali pilastri culturali della nostra quotidianità, viene ora demandata ad ambiti quasi totalmente industriali. Sembrerebbe che ciò porti ad una maggiore sicurezza dal punto di vista igienico e sanitario, in cui chi si ostina a fare il pane in casa, lievitato magari con “pasta madre”, verrebbe dipinto come un retrogrado.
Ma sarà veramente più salutare un approccio alimentare standardizzato?
Sicuramente, la pressione delle grandi catene, per accentrare - ed omologare - la produzione, le porterebbe a ricavarne vantaggiosi profitti.
In quest’ottica di “globalizzazione”, non sarebbero comunque esclusi i “colpi bassi” anche nei confronti della piccola imprenditoria industriale ed artigianale di cui in Italia vantiamo prodotti d’eccellenza, quali i rinomati formaggi di fossa, ottenuti con tecniche secolari di lavorazione all’interno di caratteristici ambienti, in cui i processi “fermentativi” ne garantirebbero la miglior conservazione.
Restando sempre in tale ambito, desta particolare interesse la pubblicazione della dietista e nutrizionista Chiara Pulvirenti, “Le potenzialità probiotiche e terapeutiche del kefir”, dove vengono accuratamente analizzate le peculiarità nutrizionali di questo prezioso alimento “fermentato” e il suo possibile effetto positivo in termini di benessere.
Attualmente, le massive produzioni industriali otterrebbero determinati prodotti alimentari “fermentati” mediante l’uso di additivi chimici o, per quel che riguarda ad esempio il Kefir, attraverso colture microbiotiche isolate in laboratorio. Va da sé che, in tali contesti, l’impatto sulla salute di questi specifici alimenti potrebbe risultare alquanto differente da quello delle piccole preparazioni artigianali o casalinghe.
Volendo ulteriormente mettere a confronto i vari metodi di produzione dello stesso Kefir, una riflessione più approfondita andrebbe a valutare le tecniche casalinghe usate in occidente - già piuttosto elaborate dal punto di vista igienico - e quelle tradizionalmente praticate nella sua regione caucasica d’origine dove lo standard esecutivo - bocciato sicuramente dai paesi occidentali - sopperisce egregiamente e da almeno un migliaio di anni anche alla penuria di adeguati sistemi di refrigerazione; basti pensare che i “grani di kefir”, con cui attuare la sua realizzazione, verrebbero tramandati di generazione in generazione, un po’ come veniva fatto dai nostri antenati con il lievito di pasta madre necessario per una ottimale panificazione.
Tenendo conto di questo, forse dovrebbe sollevare non pochi dubbi il fatto che l’uniformare le produzioni alimentari causerebbe il progressivo abbandono di tradizioni e ataviche conoscenze. Tristemente, questo sembra già succedere in numerosi settori, usualmente artigianali, in cui il delegare ogni cosa alla grande industria porterebbe alla disgregazione dei saperi più caratterizzanti, trasmessi in passato da rinomati “mastri artigiani” di provata esperienza.
Da qui, il rischio concreto di perderne, a poco a poco, ogni memoria; principale testimone di quell’eccezionale “fermento” dentro al cuore della nostra identità.