“Nascere consiste nell’essere separati - o nel separarsi - da ciò che ci concepisce nell’ordine della carne come nell’ordine del pensiero. Senza questa separazione della vita nella Vita, la stessa realtà che ci concepisce ci blocca, ci fissa, o ci uccide. Il ventre materno, …, diventa una tomba, il suo linguaggio una prigione. Senza la parola che nomina e che separa dall’altro, il fatto stesso di nascere ci fa irrimediabilmente correre il rischio d’essere abortiti: cioè di non uscirne vivi. L’identità dell’uomo implica separazione e perdita. È chiaro, allora che nascere è morire a ciò che ci concepisce il che implica che ciò che ci concepisce ci dona a noi stessi.”
(Denis Vasse, “La chair envisagée. La génération symbolique”, 2002)
C’è un momento, invisibile e inevitabile, in cui anche l’amore più profondo deve aprire la mano.
È il momento della separazione. Non quella tragica, ma quella costitutiva. Quella che permette di diventare qualcuno.
Denis Vasse, con parole che hanno il peso e la grazia di un’eredità spirituale, ci ricorda che nascere non è solo venire al mondo, ma è anche – e soprattutto – separarsi. È l’atto attraverso cui chi ci ha generato ci consegna a noi stessi.
Ed è un atto che non si compie una sola volta. Si ripete in ogni tappa della crescita, in ogni crisi dell’adolescenza, in ogni ritorno dopo una distanza, in ogni addio pronunciato per crescere.
La famiglia, allora, non è solo ciò che ci concepisce. È anche ciò che accetta di lasciarci andare, perché sa che è l’unico modo per permetterci di volare.
Ma questa libertà – vera, generosa, a volte dolorosa – non è un taglio netto, non è una fuga.
Non dovrebbe mai esserlo.
Perché la libertà piena non nasce dalla rottura, ma dalla consapevolezza.
Non c’è bisogno di ribellarsi alla famiglia per diventare se stessi. Non c’è bisogno di rinnegarla per brillare di luce propria. Al contrario: è nel sapere da dove veniamo che troviamo la forza per capire dove vogliamo andare.
In un’epoca che celebra l’autorealizzazione come atto isolato, individuale, solitario – quasi egoista –, abbiamo bisogno di ricordare che la famiglia è il luogo in cui abbiamo imparato a vivere.
Non ci ha solo dato la vita: ce l’ha insegnata, ce l’ha mostrata, ce l’ha fatta assaporare. Con le sue imperfezioni, le sue fatiche, i suoi conflitti, ma anche con i gesti silenziosi, le attese pazienti, gli abbracci mai richiesti eppure sempre offerti.
Ecco perché la parola “famiglia” non può essere ridotta a un insieme di legami giuridici o biologici.
È una radice emotiva, culturale, esistenziale. È un modo di abitare il mondo, di leggere il tempo, di affrontare il dolore e di dare un nome alla felicità.
Soprattutto in Italia – e forse è giusto dirlo con un po’ di orgoglio – la famiglia non è solo un contesto: è un valore.
Un rifugio che non chiude, ma prepara al mondo.
Un argine che non trattiene, ma sostiene.
Un linguaggio che non imprigiona, ma accompagna nel dire il proprio nome.
Certo, esistono famiglie che feriscono, che deludono, che non riescono. Ma anche in questi casi, la memoria di ciò che una famiglia avrebbe potuto essere resta viva. È una nostalgia di legame che, in fondo, parla di un bisogno strutturale dell’essere umano: quello di appartenere.
Non si nasce da soli. Non si cresce da soli. E, se possiamo, non dovremmo affrontare nemmeno il declino da soli.
La famiglia – nel senso più autentico – è il filo che unisce questi tre momenti. È ciò che ci precede, ci accompagna e ci segue. È la voce che ci chiama per nome anche quando ci perdiamo. È la casa che sa aspettare anche quando sbattiamo la porta.
Ed è proprio nella sua capacità di essere lì, sempre, che si misura il suo valore.
Perché non c’è separazione che tenga, se c’è un legame che resta.
E non c’è libertà autentica che possa fiorire, se non su un terreno che sa di amore, di accoglienza, di casa.
In un tempo in cui si confonde la felicità con l’autosufficienza, riscoprire la parola famiglia significa riscoprire il legame.
Non come zavorra, ma come radice che ci permette di slanciarci verso il cielo senza perdere terra sotto i piedi.
Famiglia è chi ci ama al punto da lasciarci andare.
Ma anche chi, silenziosamente, ci prepara il ritorno.