Quando ho iniziato a lavorare in uno studio, la tecnologia c’era già, non sono così vecchio.
I primi software trasferivano automaticamente alcuni dati dagli archivi, ma erano imperfetti, inaffidabili. Spesso si doveva ricontrollare tutto, ricalcolare, verificare. Ritengo che sia stato proprio in quei momenti: quando il computer sbagliava o quando i collegamenti non funzionavano, che ho imparato a leggere tra le righe, ovvero a saper “far passare i righi”, capire dove il sistema aveva fallito, correggere gli errori. Oggi il software è diventato quasi perfetto. Ma mentre guardo lo schermo che mi restituisce risultati impeccabili in tempo reale, mi chiedo se quel “aggiustare” non sia stato imparare, giungere a una consapevolezza.
È la stessa domanda che dovremmo porci quando vediamo un bambino delle elementari: perché gli insegnanti non gli danno subito la calcolatrice? Non per sadismo pedagogico, ma perché deve prima sviluppare il “senso del numero”. Solo chi ha fatto le tabelline sa riconoscere istintivamente che 7×8=54 è palesemente sbagliato.
Ma siamo davvero evoluti o solo semplificati? La ricerca spasmodica della comodità ci ha reso meno pratici e, di conseguenza, meno curiosi?
Noi italiani, che affrontiamo le cose di petto, abbiamo istituito addirittura il Ministero per la Semplificazione. Perché, se c’è una cosa in cui eccelliamo, è complicare il processo di semplificazione. Chapeau.
Ma torniamo a noi, guardiamoci intorno con onestà. Vogliamo fare chilometri in bicicletta senza la fatica dell’allenamento? Ecco la bici elettrica. Vogliamo giocare con la racchetta senza gli scatti del tennis? Ecco il padel. Non sappiamo suonare? Il computer genera le basi. Non sappiamo cantare? L’autotune aggiusta tutto.
Ma qui sorge il paradosso: le più grandi scoperte musicali sono nate proprio dagli “errori”, spingendo gli amplificatori oltre i loro limiti, cercando suoni nuovi attraverso l’imperfezione. E così è nato il blues elettrico, il rock, il grunge, generi influenzati da transistor che “sbagliano”, da feedback indesiderati, dalle distorsioni. L’autotune invece elimina l’errore, ma standardizza, leviga tutto verso una perfezione artificiale. Con il risultato di canzoni che suonano tutte uguali, voci che sembrano uscite dallo stesso stampo.
E ora arriva l’intelligenza artificiale, che sembra promettere di risolvere tutto. Scrive testi, compone musiche, fa calcoli complessi, risponde a domande. Ma ecco il punto: l’AI sa tutto e fa la media di tutto. È un archivio sterminato della conoscenza umana, ma restituisce sempre il risultato più probabile, più comune, più ‘sicuro’.
Le grandi scoperte, invece, arrivano proprio quando qualcosa si rompe, quando si esce dai binari della normalità. Un professionista che usa l’AI senza conoscere davvero il mestiere otterrà lavori perfettamente nella media, tecnicamente corretti, completamente dimenticabili. Ma chi conosce la materia può usare l’AI come laboratorio: generare ipotesi, testare scenari, esplorare strade che da solo non avrebbe mai imboccato.
Stiamo sostituendo il processo con il prodotto finito. E nel farlo, stiamo perdendo qualcosa di essenziale: la capacità di riconoscere quando qualcosa non va o quando va così tanto da essere rivoluzionario.
Un professionista che ha imparato a lavorare durante quella fase di transizione imperfetta sa ancora oggi quando un software produce un risultato assurdo. Ha sviluppato l’intuito che nasce solo dalla fatica, dall’errore, dalla necessità di capire per risolvere. Chi invece è cresciuto nell’era della perfetta automatizzazione cosa fa quando il sistema va in tilt? Chiama il tecnico, aspetta, si blocca. Non ha gli strumenti per diagnosticare, per improvvisare una soluzione temporanea, per capire dove guardare.
La vera evoluzione dovrebbe funzionare su due binari paralleli che si nutrono a vicenda: la conoscenza di sé e l’uso consapevole degli strumenti.
Solo chi sa pedalare davvero può usare la bici elettrica per fare cose impossibili prima: salire montagne impervie, percorrere distanze epiche, arrivare fresco agli appuntamenti. La e-bike diventa amplificatore, non sostituto.
Solo chi sa suonare può usare la tecnologia per creare suoni inediti, per esplorare territori sonori inesplorati. Il computer diventa laboratorio, non compositore.
Quando tutto è immediato, quando ogni problema ha una soluzione pre-confezionata, smettiamo di porci domande. Non ci chiediamo più “perché funziona così?” o “cosa succederebbe se…?”.
La curiosità nasce dall’ostacolo, dalla necessità di capire per superare una difficoltà. La semplificazione ci ha dato comfort, ma ci ha tolto l’opportunità di sbagliare, di provare, di scoprire per caso. E senza errori e casualità, come facciamo a innovare davvero?
Forse la vera semplificazione non è eliminare la fatica, ma capire quale fatica vale la pena fare. E quella fatica, paradossalmente, è l’unica che ci rende davvero liberi di scegliere quando semplificare e quando invece sporcarci le mani.
Perché alla fine, tra evoluti e semplificati, la differenza la fa sempre la consapevolezza. E quella, purtroppo o per fortuna, non si può automatizzare.