Evade (e non elude) l'imprenditore che aumenta artatamente i costi
di Alessandro Borgoglio
L’antieconomicità dei comportamenti imprenditoriali è la nuova “arma impropria” del Fisco da ormai qualche anno, ovvero da quando la Cassazione ha iniziato a consolidare la sua posizione, secondo cui, una volta contestata dall’Erario l’antieconomicità del comportamento posto in essere dal contribuente (sulla base di elementi gravi, precisi e concordanti), poiché assolutamente contrario ai canoni dell’economia, incombe sul medesimo l’onere di fornire, al riguardo, le necessarie spiegazioni, essendo – in difetto – pienamente legittimo il ricorso all’accertamento induttivo da parte dell’Amministrazione finanziaria, senza che quest’ultima sia tenuta a fornire ulteriori elementi a sostegno della pretesa impositiva (tra le tante, Cassazione 29066/2022, 1282/2021, 26974/2020, 9901/2020).
Tutto ciò – secondo gli Ermellini – non si traduce in un sindacato sulle scelte imprenditoriali, ma consente di presumere l’esistenza di proventi non dichiarati, correttamente desunta dalla abnormità e irragionevolezza dei dati dichiarati, che, lasciando presupporre una attività gestionale antieconomica, induce, logicamente, a ritenere complessivamente inattendibile la documentazione. In tali casi, pertanto, è consentito all’Ufficio dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, un maggior reddito di impresa. A fronte, dunque, di condotte aziendali che risultano in netto contrasto con le leggi del mercato, compete all’imprenditore dimostrare, in modo specifico, che la differenza negativa tra costi di acquisto e prezzi di rivendita, emersa dalle scritture contabili, non è dovuta all’occultamento di corrispettivi, ma trova valide ragioni economiche che la giustificano (Cassazione 7080/2024).
Esaminando la giurisprudenza di legittimità in materia, si rileva che, a fronte di svariate situazioni nelle quali il Fisco utilizza la sua “arma impropria” – costo del venduto di gran lunga superiore ai ricavi fatturati (Cassazione 24355/2023), vendite insufficienti a remunerare alcuni dei fattori produttivi (Cassazione 17187/2022), elevati costi a fronte di un esiguo reddito dichiarato (Cassazione 14294/2021), reiterata dichiarazione di perdite fiscali per diverse annualità (Cassazione 7382/2021, 16749/2021) – non sempre i contribuenti riescono a “superare” la presunzione accertativa utilizzata dall’Amministrazione finanziaria (tanto che non si rinvengono pronunce di legittimità favorevoli ai contribuenti).
Tali accertamenti, infatti, si basano di solito sul metodo analitico-induttivo (o meglio, analitico-presuntivo), che permette l’utilizzo di presunzioni gravi, precise e concordanti per desumere l’esistenza di attività non dichiarate (articolo 39, comma 1, lettera d), ultimo periodo, del Dpr 600/1973 e, ai fini IVA, articolo 54, comma 2, ultimo periodo, del Dpr 633/1972).
È però importante definire che qualificazione giuridica assume la condotta antieconomica dell’imprenditore, ovviamente quando la prospettazione erariale si riveli corretta, ovvero quando, in effetti, tale comportamento non abbia una valida ragione extrafiscale, ma sia finalizzato unicamente a ridurre (a volte, eliminare) il carico impositivo.
Potrebbe venire il dubbio che si tratti di elusione fiscale, soggetta a tutta la peculiare procedura dell’accertamento antielusivo di cui all’articolo 10-bis della Legge 212/2000, contemplante tra l’altro la preventiva richiesta obbligatoria di chiarimenti da parte del Fisco, ma non è così.
L’elusione, invero, richiede un uso distorto della normativa fiscale o del singolo strumento negoziale, mentre l’evasione si verifica in tutte quelle situazioni che conducono a risultati diversi da quelli che la legge prevede, generalmente attraverso la “manipolazione” di fatti economici.
Perciò la condotta “volutamente” antieconomica dell’imprenditore (finalizzata alla riduzione del carico fiscale) non può che essere ascrivibile all’evasione fiscale, e non all’elusione (o all’abuso di diritto).
A tali conclusioni è pervenuta anche la Cassazione, che, con l’ordinanza 444/2025, ha preso le distanze dalla qualificazione operata dall’Ufficio, in termini di abuso del diritto, di una serie di operazioni realizzate al solo scopo di consentire a una società di dedurre maggiori costi (di personale) dalla base imponibile, attraverso una manifesta condotta antieconomica, che – secondo gli Ermellini – va sicuramente ascritta al fenomeno dell’evasione fiscale; perciò, in caso di contestazione del Fisco, non è necessaria l’attivazione della speciale procedura prevista dall’articolo 10-bis dello Statuto per gli accertamenti antielusivi, con contraddittorio preventivo.
Con le nuove disposizioni sullo schema d’atto di cui all’articolo 6-bis della Legge 212/2000, tuttavia, il contraddittorio preventivo è quasi sempre garantito (salvo caso particolari).