Eredi e compensi professionali: l’inestricabile complicazione fiscale della risposta n. 118/2025
di Simona Baseggio e Barbara Marini
Con la risposta a interpello n. 118/2025, l’Agenzia delle Entrate si è cimentata nuovamente nell’annosa questione della gestione fiscale dei compensi professionali incassati post mortem dagli eredi di un professionista.
Il caso è quello dell’incasso, nell’anno 2024, da parte dell’erede, di un credito professionale maturato per prestazioni rese dal de cuius. Secondo l’Amministrazione finanziaria, l’erede non potrebbe limitarsi ad incassare il compenso (e a dichiararlo), bensì dovrebbe riattivare la partita IVA intestata al de cuius ed emettere fattura “in nome e per conto” del defunto, assoggettando ad IVA l’importo percepito. Una pretesa che, pur trovando qualche appiglio in elaborazioni giurisprudenziali, non ultima la pronuncia delle Sezioni Unite n. 8059/2016, lascia nondimeno perplessi sotto molteplici e non trascurabili profili.
È davvero sostenibile, ci si chiede sommessamente, l’idea di una “resurrezione fiscale” dell’attività del professionista defunto, limitatamente all’adempimento tributario? Non converrebbe, sul piano della buona amministrazione, predisporre strumenti semplificati, che consentano agli eredi di adempiere agli obblighi impositivi senza ricorrere a finzioni giuridiche tanto paradossali quanto inutilmente gravose?
Non meno criticabile appare, nel caso di specie, l’assunto dell’Agenzia circa la necessità di mantenere in vita la partita IVA del professionista fino all’esaurimento di tutti i rapporti giuridici pendenti. L’Amministrazione richiama, infatti, l’indirizzo espresso nella circolare 11/E del 2007 secondo cui «l’attività del professionista non si può considerare cessata fino all’esaurimento di tutte le operazioni [...] aventi ad oggetto crediti strettamente connessi alla fase di svolgimento dell’attività professionale». Senonché, applicare tale principio a vicende come quella in esame – dove il de cuius è deceduto nel 2011 e il pagamento del credito è intervenuto solo nel dicembre 2024, a distanza di oltre tredici anni – conduce a esiti paradossali. Pretendere che per tutto questo arco temporale si debba mantenere attiva la partita IVA implica l’obbligo, per gli eredi, di trasmettere annualmente una dichiarazione IVA, onde evitare la revoca d’ufficio della posizione fiscale ai sensi dell’articolo 35, comma 15-quinquies, del Dpr 633/1972. Comporta, altresì, l’onere di presentare ogni anno, per il defunto, una dichiarazione dei redditi. Un tale aggravio procedurale, imposto per la sola eventualità di incassare un credito postumo, appare manifestamente sproporzionato rispetto alle esigenze di tutela dell’interesse erariale, sacrificando inutilmente principi di ragionevolezza e di buon andamento dell’azione amministrativa.
Non meno censurabile risulta la chiusura apodittica con cui l’Agenzia respinge l’alternativa, prospettata dall’istante, di emissione dell’autofattura da parte della curatela fallimentare, essendo nel frattempo intervenuto il fallimento del soggetto obbligato al pagamento del compenso. Soluzione, quest’ultima, che in precedenti documenti di prassi (risposta interpello 52/E del 2020) era stata reputata idonea, in quanto fiscalmente neutra e idonea ad evitare le inutili riaperture di partite IVA. Oggi, al contrario, invocando il sopravvenuto articolo 6, comma 8, del Dlgs n. 471/1997, che non prevede più l’emissione dell’autofattura per regolarizzare l’omessa o carente fatturazione da parte del cedente o prestatore, l’Amministrazione richiede che l’erede, per adempiere correttamente agli obblighi fiscali, proceda alla riapertura della partita IVA del defunto, anche a fronte di un credito incassato a distanza di molti anni dal decesso. Una soluzione che appare poco aderente ai principi di proporzionalità e buon andamento dell’azione amministrativa.
Sul piano sistematico, il quadro che si delinea è sconfortante: un approccio rigidamente formalistico che, pur saldamente ancorato alla lettera della legge, si traduce in un inutile aggravio procedimentale per gli eredi, già alle prese con le complessità delle vicende successorie e spesso estranei alle vicende pregresse del de cuius. Una rigidità che, più che rafforzare l’efficacia dell’azione impositiva, rischia di tradursi in un appesantimento dell’apparato burocratico, senza reali benefici per l’Erario.
In definitiva, la risposta n. 118/2025, lungi dal recare chiarezza e certezza operativa, si traduce in un ulteriore fattore di complicazione e incertezza. Sarebbe auspicabile – anzi, necessario – un intervento del legislatore che codifichi una disciplina più semplice e aderente alla realtà, consentendo agli eredi di assolvere agli obblighi fiscali in modo diretto, senza ricorrere a costruzioni fittizie e senza infliggere loro adempimenti inutilmente onerosi.
Ma, ancora una volta, la semplicità, nel nostro diritto tributario, resta una chimera irraggiungibile, sacrificata ad una burocrazia che pare compiacersi delle proprie complicazioni.