Draghi avverte l’Europa, ma il conto arriva all’Italia: se l’AI decide la produttività, chi paga il welfare?
di Antonella Tortora
Pensare in grande e introdurre tecnologie capaci di sostituire in tutto o in parte l’operato umano è un obiettivo ambizioso. Se, parallelamente, si immagina anche un contributo automazione che compensi il lavoro sostituito, il quadro sembra ancora più promettente: riorganizzare le norme fiscali, ripensare la sostenibilità del welfare e costruire un sistema nuovo, fondato sull’evoluzione digitale, appare la strategia naturale del futuro.
Peccato che l’Italia, nonostante insegua da anni questo obiettivo dichiarato, continui a vivere una contraddizione strutturale: incentiva la digitalizzazione con Transizione 4.0, la sua evoluzione 5.0 prevista dalla Legge di Bilancio 2024 e l’intero impianto degli ammortizzatori del D.Lgs. 148/2015, ma non possiede ancora una vera architettura normativa capace di incasellare la realtà dell’intelligenza artificiale.
L’avanzata tecnologica cambia infatti il contesto più velocemente delle regole. E su questo punto Draghi è stato netto: se l’Europa non accelera davvero sull’AI, non sarà la tecnologia a fermarsi - sarà la crescita a farlo.
Un monito che pesa sull’Italia più che altrove, perché se la produttività del futuro sarà generata sempre più dalle macchine e sempre meno dal lavoro umano, allora la domanda diventa inevitabile: chi pagherà il welfare, un sistema costruito su un’imposizione che esiste solo perché esiste il lavoro?
A questo punto, la questione centrale non è più se tassare i robot sia giusto o sbagliato.
È più semplice, e molto più urgente: cosa manca oggi per rendere anche solo tecnicamente possibile tassare l’automazione?
Una verità scomoda è già evidente: tassare l’automazione oggi è impraticabile.
Ma potrebbe non esserlo più tra qualche anno.
L’allarme di Draghi sull’AI non è teorico: ecco perché l’Italia non può ancora tassare l’automazione
L’avanzata tecnologica dell’Italia si ferma davanti a un punto critico: il tassello contabile. L’espansione dell’intelligenza artificiale - per quanto avanzata e promettente - non trova ancora un corrispettivo nel nostro sistema fiscale e contributivo, costruito su logiche pensate per un’economia in cui il lavoro umano è la base di tutto.
Il problema è semplice da enunciare, ma complesso da gestire: tutto l’impianto fiscale italiano presuppone l’esistenza di lavoratori, cioè ore lavorate, imponibile IRPEF, contributi previdenziali e costo del lavoro. Sono queste le variabili che generano ricchezza tassabile.
L’automazione rompe questo schema in modo radicale.
Produce valore, output e redditività senza generare retribuzione, senza contributi e senza un imponibile riconducibile a un lavoratore. Sviluppo tecnologico e produzione avanzano, ma senza una corrispondenza contabile. Manca infatti ciò che oggi sarebbe indispensabile: una metrica che quantifichi quanta parte della produzione deriva da processi automatizzati e quanta dal lavoro umano.
E senza una misura, non può esistere un’imposta. Ogni prelievo fiscale richiede una base imponibile chiara, definita e misurabile.
Al momento non c’è nulla di tutto questo.
Non esiste una definizione giuridica di “unità produttiva non antropica”, né uno standard europeo capace di distinguere l’automazione che sostituisce lavoro da quella che aumenta la produttività.
Prima ancora di discutere un eventuale contributo automazione, serve una cosa più elementare: una grammatica normativa. Senza questo, la tassazione è tecnicamente impraticabile.
Il paradosso fiscale: lo Stato incentiva ciò che vorrebbe compensare
C’è poi chi osserva, non senza perplessità, la convivenza tra incentivi e ipotesi di prelievo.
Negli ultimi dieci anni l’evoluzione della politica industriale ha spinto con forza verso un modello sempre più digitale: superammortamenti (D.L. 34/2019), crediti d’imposta 4.0 (Leggi di Bilancio 2020–2023) e, oggi, Transizione 5.0, che punta a valorizzare gli investimenti tecnologici insieme alla riduzione dei consumi energetici.
L’automatizzazione garantisce ampia visibilità fiscale e, soprattutto, una grande convenienza per le imprese. Ma proprio per questo diventa necessario un approccio diverso: applicare una contribuzione sulla stessa automazione significa sovrapporre due logiche opposte, rischiando di annullare gli effetti degli incentivi.
Ciò che manca, infatti, è una distinzione normativa chiara tra:
automazione che genera un vero salto di produttività, quindi incentivabile;
automazione che sostituisce soltanto lavoro a basso valore aggiunto, quindi eventualmente compensabile.
Senza questa distinzione, qualsiasi forma di contributo rischierebbe non di riequilibrare il sistema, ma di frenare l’innovazione.
Un continente che rallenta: il monito di Draghi
La riforma tecnologica getta le basi per un’accelerazione del sistema europeo, un cambiamento che mira a raggiungere obiettivi ambiziosi ma, soprattutto, aumenta la consapevolezza che l’adeguamento al sistema guidato dall’intelligenza artificiale non è più rimandabile.
Partendo da questa premessa si arriva alle dichiarazioni di Mario Draghi, pronunciate all’inaugurazione dell’anno accademico del Politecnico di Milano, che hanno riaperto il dibattito: secondo l’ex presidente della BCE, il ritardo dell’Europa nell’adozione dell’AI rischia di condannare il continente a una fase di stagnazione economica.
A detta di Draghi, il futuro delle economie avanzate dipenderà sempre più dalla capacità di generare una produttività rapida ed efficiente, evidenziando l’urgenza di adottare e diffondere nuove tecnologie su larga scala.
È un nuovo capitolo, dove si incrociano dati e ricerca: la trasformazione tecnologica non è solo un esercizio ricognitivo, ma segna l’inizio di un cambiamento strutturale. Basti pensare che nel 2023 gli Stati Uniti hanno sviluppato 40 foundation models di AI, la Cina 15 e l’Unione Europea soltanto 3.
Il rapporto State of European Tech di Atomico descrive un continente ricco di competenze ma incapace di scalare: investitori frammentati, normative divergenti e appena il 9 per cento degli appalti pubblici orientato verso la digitalizzazione.
L’AI Diffusion Report di Microsoft aggiunge un elemento ulteriore: l’Europa possiede buone competenze, ma infrastrutture insufficienti. I data center non bastano a sostenere la crescente domanda di calcolo necessaria ai modelli più avanzati.
Questo ritardo ha una conseguenza diretta sul tema del contributo automazione: non si può tassare su larga scala ciò che non è ancora adottato su larga scala. Il problema, infatti, non è soltanto normativo: riflette una realtà industriale che avanza più lentamente rispetto alla tecnologia che vorrebbe regolamentare.
Uno sguardo all’estero: soluzioni ibride, ma nessun modello definitivo
Il dibattito assume anche una dimensione internazionale e merita attenzione per alcune sperimentazioni già avviate. In Corea del Sud, ad esempio, gli incentivi vengono ridotti quando l’automazione non genera un reale aumento di produttività. Negli Stati Uniti alcuni stati stanno valutando forme di “payroll automation replacement”, mentre in Germania si discute dell’opportunità di ampliare la base contributiva oltre il lavoro umano.
La riflessione non riguarda la sottovalutazione dell’impatto tecnologico, ma la consapevolezza che, quando il lavoro non è più il centro della produzione, il fisco deve trovare un nuovo equilibrio da cui ripartire. È in questo contesto che prende forma l’idea - ancora controversa - di una possibile tassazione legata all’intelligenza artificiale.
Una tassa diretta sull’IA appare difficilmente praticabile, ma una via alternativa guarda alla capacità produttiva automatizzata: non tassare il bene strumentale in sé, ma il valore generato senza lavoro umano.
Un approccio di questo tipo richiederebbe però almeno tre condizioni oggi assenti:
· una metrica europea della produzione automatizzata;
· una definizione normativa di “processo non antropico”;
· un riallineamento coerente tra incentivi e prelievi.
È un percorso lungo ma inevitabile: non perché il lavoro scompaia, ma perché cambia profondamente.
E un sistema fiscale costruito per il lavoro del Novecento non può reggere un’economia che corre verso il 2030.


