Dove finisce il lavoro e inizia il veleno: come nasce e si cura la tossicità delle relazioni
di Andrea Tordini
C’è un momento, nella vita delle organizzazioni, in cui si avverte che “qualcosa non va”. Non si tratta di un bilancio in rosso o di un prodotto difettoso: è un’aria pesante, un malessere sottile che si insinua nei corridoi, nei meeting, nelle chat aziendali. È la tossicità relazionale, quella trama invisibile di comportamenti e parole che corrode la fiducia e mina la produttività. Non serve che esploda un conflitto per accorgersene: a volte basta il silenzio di un team che non collabora più, o il sorriso forzato di un collega che si sente escluso.
Le relazioni tossiche in azienda non sono solo una questione psicologica: sono un tema organizzativo, strategico e culturale. Dietro un ambiente tossico, spesso, si nasconde un vertice disattento, una leadership incapace di leggere le emozioni, o una comunicazione interna che premia la competizione anziché la collaborazione.
“Il modo in cui trattiamo gli altri dice molto di come trattiamo noi stessi”, scriveva Carl Jung. In azienda, questa frase risuona con forza: dove regnano paura e controllo, di solito regna anche l’insicurezza.
I segnali di un ambiente tossico
Riconoscere una relazione tossica sul lavoro non è semplice, almeno in apparenza. A differenza dei conflitti aperti, la tossicità si manifesta per accumulo: piccoli gesti, battute ironiche, esclusioni reiterate, riunioni condotte con toni passivo-aggressivi. In certi casi, è la leadership a diventare il centro del problema: stili autoritari, confondere l’autorevolezza con il dominio, delegare il disagio invece delle responsabilità.
Ma anche tra colleghi può instaurarsi un clima tossico: competizioni esasperate, manipolazioni, alleanze di convenienza, isolamento del più debole o del più brillante. In queste dinamiche, il lavoro smette di essere un luogo di crescita e diventa un campo minato emotivo.
Uno dei segnali più evidenti è la perdita di fiducia: nessuno si fida dell’altro, le informazioni circolano a metà, le riunioni diventano rituali di facciata. Poi arriva la demotivazione collettiva, quel lento svuotamento di senso che trasforma anche i progetti più stimolanti in pura routine.
Le cause profonde
Alla radice delle relazioni tossiche vi è quasi sempre una disfunzione organizzativa. Spesso, le aziende con ambienti deteriorati condividono alcune caratteristiche: gerarchie rigide, obiettivi calati dall’alto, scarsa trasparenza sui processi decisionali. In questi contesti, la persona non si sente vista né ascoltata.
C’è poi la cultura della performance a ogni costo, che trasforma i team in arene. Quando l’unico parametro di successo è il risultato economico, tutto ciò che riguarda il benessere relazionale passa in secondo piano. In molti casi, la tossicità è alimentata anche da persone incapaci di gestire il dissenso o di trasformare gli errori in opportunità di apprendimento.
A ciò si aggiunge un elemento spesso trascurato: la mancanza di riconoscimento. Un ambiente in cui gli sforzi individuali non vengono valorizzati è terreno fertile per il risentimento. Si lavora “per dovere”, non più “per convinzione”.
Dalla tossicità alla consapevolezza
A mio avviso, il primo passo per trasformare le relazioni tossiche (se ce ne fosse la volontà, eh!) è riconoscere che esistono. Negare il problema è l’errore più comune: chiudere gli occhi, temendo che parlarne significhi ammettere un fallimento.
Il percorso di trasformazione passa attraverso direttrici fondamentali: ascolto, consapevolezza e responsabilità.
Ascolto: significa creare spazi in cui le persone possano esprimersi senza timore. Non solo survey anonime, ma momenti reali di confronto, facilitati da figure capaci di mediazione.
Consapevolezza: ogni individuo deve essere messo in condizione di riconoscere il proprio ruolo nelle dinamiche relazionali.
Responsabilità: la direzione aziendale deve assumersi il compito di tradurre l’ascolto in azioni concrete. Non bastano i corsi di “team building” se non si toccano le strutture di potere che generano disfunzione.
Come ricordava Václav Havel, “la speranza non è la convinzione che qualcosa andrà bene, ma la certezza che qualcosa ha senso, indipendentemente da come andrà”. Portare consapevolezza in azienda significa restituire senso al lavoro.
Costruire una cultura relazionale
Per uscire dalla tossicità serve una nuova cultura organizzativa, fondata su valori condivisi e praticati. Le aziende devono ripensare i propri strumenti di valutazione, premiando non solo i risultati individuali, ma anche la qualità delle relazioni generate.
Occorre introdurre la cura come valore aziendale. Non nel senso assistenziale del termine, ma come attenzione reale all’altro: cura delle parole, delle emozioni, dei tempi. La cultura della cura è il vero antidoto alla tossicità.
Un’azienda che si prende cura delle proprie relazioni diventa più resiliente (questo non è un termine che mi sta particolarmente simpatico perché mi ricorda la sciagura del covid, però è calzante). È capace di affrontare i momenti di crisi senza fratture interne, di mantenere la coesione anche quando le sfide esterne si moltiplicano.
La consapevolezza come vantaggio competitivo
Oggi, in un mercato dove le competenze tecniche sono replicabili, la differenza la fa la qualità delle relazioni. Un team che si fida è un team che funziona. Un ambiente sano è una calamita per i talenti, mentre la tossicità li disperde.
Alla fine, ciò che conta non è eliminare i conflitti, ma imparare a trasformarli in dialogo. In questo, l’impresa può tornare a essere ciò che dovrebbe essere: una comunità di persone che costruiscono insieme un senso, un futuro e – perché no – una forma di felicità condivisa.
Come scriveva Hannah Arendt, “il potere nasce quando le persone agiscono insieme”. Ed è forse questa la più alta forma di consapevolezza che un’azienda possa raggiungere.

