Dividendi: tre epoche, una soglia magica (10 per cento) e un gigantesco problema di fiducia
di Gianluca Iannetti
In Italia c’è una costante nella fiscalità: il mutamento delle regole del gioco.
Si prenda, ad esempio, l’esclusione da imposizione dei dividendi che varrà solo se la partecipazione è almeno pari al 10 per cento, prevista dalla bozza delle Legge di Bilancio 2026.
Non è un ritocco di fino: si tratta di un cambio di paradigma rispetto a una logica – credito d’imposta prima, esclusione ex articolo 89 TUIR poi – che sembrava sedimentata da decenni.
Prima del credito d’imposta: la doppia imposizione senza sensi di colpa
Per anni il film è stato semplice, quasi crudo: la società paga le imposte sui suoi utili (redditi), il socio paga di nuovo sul dividendo. La doppia imposizione economica non era un problema da risolvere, ma il prezzo del biglietto. Qualche aggiustamento di aliquote, qualche ritenuta, ma niente che assomigliasse a una tutela strutturale contro il fatto che lo stesso flusso di ricchezza venisse tassato due volte in punti diversi della catena.
Questo quadro viene “completato” nel 1977, quando venne introdotto il credito d’imposta sui dividendi: per la prima volta il legislatore riconosce, in modo organico, che gli utili distribuiti dalle società di capitali non possono essere tassati senza limiti lungo la catena.
È l’inizio di una lunga stagione: il credito d’imposta resterà con noi, con vari ritocchi (anche profondi, come quelli del 1997–1998), fino alla riforma del 2003.
1998: un miliardo di dividendo e lo Stato che (a certe condizioni) ti restituisce imposte
Immaginiamoci nel 1998.
Alfa Srl detiene il 10 per cento di Beta Srl. Beta è una società operativa che genera utili consistenti, Alfa è la holding del gruppo. L’assemblea di Beta delibera la distribuzione di un dividendo di 1 miliardo di lire ad Alfa.
Siamo nel pieno del regime del credito d’imposta, già passato attraverso le modifiche degli anni ’90 (compreso il sistema dei famosi “canestri”). Quando Beta distribuisce il dividendo, ad Alfa non arriva solo il miliardo: arriva anche un credito d’imposta che rappresenta, in misura più o meno piena, le imposte già pagate da Beta su quell’utile.
Fiscalmente, succede questo: Alfa “lordizza” il dividendo, somma dividendo e credito, tassa il totale, poi sconta dal debito d’imposta proprio quel credito. Se Alfa è in utile e il dividendo proviene da utili “buoni” (canestro giusto, condizioni rispettate), il risultato è che sugli utili già tassati in Beta non paga praticamente nulla in più. La doppia imposizione viene neutralizzata, almeno in via di principio.
Se Alfa è in perdita, in alcune configurazioni il credito può addirittura tradursi in rimborso: lo Stato restituisce una parte delle imposte pagate da Beta. Non sempre e non per tutti – perché il sistema era ormai regolato in modo sofisticato, non da manuale di scuola – ma il messaggio di fondo è chiaro: la tassazione degli utili d’impresa non deve duplicarsi all’infinito lungo la catena societaria.
Concettualmente è affascinante: si riconosce che il dividendo è reddito già tassato nel circuito d’impresa e si cerca di evitare che venga “spremuto” a ogni passaggio. Ma il meccanismo è complesso, costoso, problematico nei rapporti internazionali. È un motore raffinato ma che richiede una manutenzione continua.
Nel 2003 il legislatore decide allora di chiudere quella stagione e sceglie una strada più semplice.
2003–2025: la participation exemption
Con il D.Lgs. 344/2003 viene riscritto il TUIR, sposando il principio c.d. di esenzione, che determina (normativamente):
articolo 87 TUIR – la c.d. Participation Exemption (PEX), che riguarda le plusvalenze da cessione di partecipazioni. Qui vengono previsti determinati requisiti: holding period, iscrizione tra le immobilizzazioni, white list, esercizio di impresa, ecc.;
articolo 89 TUIR – l’esclusione (al 95 per cento) dei dividendi per i soggetti IRES. Qui, fino ad oggi, non ci sono requisiti percentuali, né holding period, né classificazioni particolari: il “patto implicito” con gli investitori è proprio questo.
Ritorniamo quindi ad Alfa e Beta, ma spostiamoci al 2025.
Alfa detiene il 10 per cento di Beta. Beta distribuisce (ad Alfa) un dividendo di 1.000.000 €.
Beta ha già pagato la sua IRES al 24 per cento. Alfa incassa il milione. In dichiarazione, in base all’articolo 89 TUIR, solo il 5 per cento del dividendo entra nel reddito imponibile: 50.000 €. Su quell’importo Alfa paga il 24 per cento: 12.000 € di imposta.
Tradotto:
tassazione “a livello Alfa” pari all’1,2 per cento del dividendo;
sommata all’IRES già pagata da Beta, un carico complessivo sugli utili societari tutto sommato ragionevole.
È la traduzione pratica del principio di esenzione.
Su questa logica si sono costruite strutture di gruppo, holding, fondi, club deal, manager che reinvestono: si è creato, di fatto, un patto implicito tra Stato e investitori. Il patto non era “ti do un’agevolazione se hai certi requisiti PEX”: era molto più semplice – nessuna soglia percentuale, nessun holding period. Se sei una società soggetta a IRES e percepisci dividendi da un’altra società, il 95 per cento lo tengo fuori dall’imponibile.
Il caso tipico: il fondo, i manager e il 20 per cento reinvestito
Venendo quindi alla nuova regola prevista dal Ddl Bilancio 2026 e per rilevare – intanto quale premessa – come possa essere distorsiva, basta guardare uno schema da manuale di private equity: un fondo acquisisce una società industriale; tre soci/manager storici reinvestono complessivamente il 20 per cento del capitale, ciascuno tramite la propria società veicolo, con quote singole inferiori al 10 per cento.
La struttura nasce in un mondo in cui il dividendo tra società è escluso al 95 per cento senza condizioni percentuali. I veicoli dei manager sono strumenti per allineare interessi, gestire governance e pianificare patrimonio e passaggi generazionali. Non sono “cassette fiscali” finalizzate a vivere di rendita: rimangono esposti al rischio industriale dell’operazione.
Se, a regime, quei veicoli iniziano a percepire dividendi in un contesto in cui sotto il 10 per cento si tassa tutto, diventano improvvisamente moltiplicatori di doppia imposizione solo perché la percentuale non supera una soglia che, per vent’anni, non è mai esistita.
2026: basta scendere al 9 per cento e la tassazione esplode
Veniamo pertanto al nostro esempio base.
Entra quindi in scena la bozza di Manovra 2026. Il principio è tanto semplice quanto dirompente: l’esclusione al 95 per cento dell’articolo 89 TUIR resterebbe solo per partecipazioni almeno pari al 10 per cento. Sotto, il dividendo sarebbe tassato per intero.
Riprendiamo l’esempio, aggiungendo però un dettaglio tipico della vita vera.
Beta decide di fondersi con un’altra società per crescere, entra un fondo, magari qualche manager. Alfa non vende nulla, ma la sua quota si diluisce: dal 10 per cento scende al 9 per cento. Stesso investimento, stesso rischio industriale, percentuale diversa.
Arriviamo così al 2026. Beta (ora fusa) distribuisce ad Alfa un dividendo di 1.000.000 €.
Questa volta, la partecipazione di Alfa è sotto il 10 per cento. L’intero dividendo è imponibile IRES. A 24 per cento di aliquota, significa 240.000 € di imposta.
Nel 2025, con il 10 per cento, Alfa pagava 12.000 €. Nel 2026, con il 9 per cento, ne paga 240.000.
Un punto percentuale di partecipazione in meno, venti volte più imposta. Non perché Alfa abbia fatto qualcosa di diverso, non perché abbia cambiato strategia, ma perché una soglia formale è stata varcata a causa di un’operazione industriale di crescita.
E qui sta un punto fondamentale di precisione storica: mai, dal 2004 ad oggi, l’articolo 89 TUIR ha previsto soglie percentuali di partecipazione. L’idea stessa che una quota del 9 per cento debba essere trattata in modo radicalmente diverso da una del 10 per cento è una creazione ex novo del 2026. Non è l’aggiustamento di un requisito preesistente, è una regola nuova di zecca.
Se poi sopra Alfa c’è un’altra holding, o se i soci sono persone fisiche che preleveranno utili con ritenuta al 26 per cento, il carico complessivo sugli stessi utili può tranquillamente salire verso il 60–70 per cento. In una struttura con due livelli societari si arriva davvero alla sensazione – non solo retorica – di una tassazione quasi espropriativa.
E con un effetto collaterale evidente: se una fusione “virtuosa” per creare un campione nazionale porta i soci corporate a scendere dal 10 per cento al 9 per cento, il rischio concreto è che questi si oppongano non per ragioni industriali, ma per autodifesa fiscale.
Il problema non è solo quanto si tassa, ma quando si cambiano le regole
La criticità più grande sta qui: non è solo un tema di quantità del prelievo, è un tema di timing e di fiducia.
Fondi di private equity, family office, imprenditori, manager che hanno reinvestito tramite le proprie società hanno disegnato strutture sulla base di una regola semplicissima: se sei soggetto IRES e percepisci dividendi, il 95 per cento non lo tassiamo, indipendentemente dalla percentuale detenuta e dall’holding period.
Se oggi cambiamo il gioco e diciamo: “sotto il 10 per cento tassiamo tutto”, stiamo colpendo non solo i dividendi futuri, ma le conseguenze di scelte di investimento già fatte. E in molti casi si tratta di partecipazioni illiquide, non vendibili dall’oggi al domani, agganciate a patti parasociali, lock-up, vincoli contrattuali.
È qui che entrano in scena il tema del legittimo affidamento e quello della capacità contributiva: stiamo chiedendo più imposte non perché è cambiata la situazione economica del contribuente, ma perché il legislatore ha deciso di riscrivere, a posteriori, il patto fiscale su investimenti di lungo periodo. E il confine con un possibile contrasto con i principi di ragionevolezza e proporzionalità non è così lontano.
Gli altri cambiano le regole, ma mettono un paracadute
Non siamo gli unici a ritoccare i regimi sui dividendi. In altri ordinamenti europei – la Spagna è spesso citata come esempio – le recenti revisioni dei regimi di esenzione sono state accompagnate da regimi transitori e misure di salvaguardia per le partecipazioni già detenute, proprio per evitare shock sugli investimenti in essere.
Il punto non è se la scelta sia stata più o meno favorevole, ma il metodo: le nuove regole vengono, di norma, applicate pienamente solo ai nuovi investimenti, con meccanismi di gradualità o di protezione per il pregresso.
La bozza italiana, oggi, questo paracadute non ce l’ha. Dal 2026, sotto il 10 per cento, si vorrebbe tassare tutto e basta.
Tre correttivi per non farci del male da soli (ovvero consigli non richiesti per il collega Giorgetti)
Se davvero – come ha detto lo stesso Ministro Giorgetti – “ci si sta lavorando”, allora vale la pena indicare tre correttivi molto concreti.
Primo: una clausola di salvaguardia vera. Applicare il nuovo regime solo agli investimenti effettuati dal 1° gennaio 2026 e mantenere per le partecipazioni già detenute il trattamento attuale, magari con un periodo transitorio di qualche anno. È il minimo sindacale per non tradire l’affidamento di chi ha investito nelle regole vigenti.
Secondo: un safe harbour per l’economia reale. Mantenere l’esclusione al 95 per cento anche sotto il 10 per cento per partecipazioni in società non quotate, legate a patti parasociali, club deal, start-up e venture dove la natura dell’investimento è industriale, non meramente finanziaria. Se il bersaglio politico sono le rendite, non ha senso falciare le minoranze che portano capitale nelle PMI.
Terzo: una regola di “diluizione neutrale”. Se scendi sotto il 10 per cento non perché vendi, ma perché partecipi a fusioni, aumenti di capitale per M&A, ingressi di nuovi investitori, il regime dei dividendi dovrebbe restare quello precedente. Non può essere il fisco il motivo per cui un socio blocca una fusione che ha senso industriale.
In gioco non ci sono solo i dividendi: c’è la credibilità dell’ordinamento
In poche decadi siamo passati da una doppia imposizione accettata senza sensi di colpa, al credito d’imposta che arrivava (in certe condizioni) anche a restituire imposte, all’esclusione al 95 per cento che ha reso il sistema stabile e comprensibile per chi investe nelle imprese.
La stretta proposta per il 2026 rompe questo equilibrio, reintroduce di fatto la doppia imposizione per una vasta platea di investitori e lo fa introducendo, per la prima volta, una soglia percentuale che non c’era mai stata. Non è un tecnicismo da addetti ai lavori: è un test sulla credibilità del nostro ordinamento nei confronti del capitale di rischio.
Il messaggio che rischiamo di mandare è questo: puoi investire, puoi accettare diluizioni per far crescere le tue società, puoi strutturare operazioni complesse sulla base delle regole vigenti. Ma domani, se servirà gettito, potremo cambiare le carte in tavola. Anche a partita già iniziata.
Se davvero vogliamo più capitali nell’economia reale, più imprese che crescono, più aggregazioni e meno nanismo, la tassazione dei dividendi intersocietari non può diventare l’arma con cui colpiamo proprio chi ha avuto il coraggio di investire a lungo termine. Qui non si tratta solo di difendere un regime fiscale: si tratta di decidere se il patto tra Stato e investitori vale ancora qualcosa.


