L’intelligenza artificiale ci renderà dipendenti e cognitivamente più deboli? È la domanda che ritroviamo sempre più frequentemente nelle conversazioni e nei dibattiti dove si parla di intelligenza artificiale. Quindi, l’uso massivo dell’intelligenza artificiale ci renderà più stupidi?
La paura è comprensibile. Deleghiamo a ChatGPT la scrittura di email, affidiamo a sistemi AI decisioni complesse, consultiamo algoritmi prima ancora di consultare la nostra esperienza. Stiamo davvero rischiando un’atrofia cognitiva collettiva? O è solo l’ennesimo allarmismo tecnologico?
Il “debito cognitivo”: quando il cervello diventa pigro
La preoccupazione non è infondata. Uno studio rivoluzionario del MIT di Boston, condotto dalla ricercatrice Natalia Kosmyna, ha portato alla luce dati che fanno riflettere. Il team ha monitorato con elettrodi cerebrali tre gruppi di studenti impegnati in compiti di scrittura: il primo lavorava senza supporti digitali, il secondo con accesso a Google, il terzo con ChatGPT. I risultati sono stati inequivocabili: chi utilizzava l’intelligenza artificiale mostrava una connettività cerebrale ridotta del 55 per cento rispetto a chi lavorava autonomamente.
Il fenomeno è stato definito “debito cognitivo”: un progressivo impoverimento delle capacità cognitive dovuto all’eccessivo affidamento su strumenti esterni. Chi aveva utilizzato ChatGPT mostrava difficoltà a ricordare persino i contenuti appena scritti (nell’83 per cento dei casi), come se il cervello avesse delegato completamente il processo creativo all’algoritmo. Le aree cerebrali associate all’ideazione creativa, all’integrazione dei significati e all’automonitoraggio risultavano sottostimolate, mentre si attivavano principalmente le funzioni automatiche e passive.
Più che stupidi, dipendenti
Il vero rischio non è tanto diventare “stupidi” quanto diventare dipendenti. Come il GPS ha ridotto le nostre capacità di orientamento spaziale, l’AI potrebbe atrofizzare specifiche competenze cognitive: il pensiero critico, la memoria di lavoro, la capacità di problem solving autonomo, la creatività divergente. Ricerche indicano che l’esposizione prolungata a contenuti generati dall’AI può portare alla “fissazione progettuale”, riducendo la capacità di proporre idee originali e favorendo un conformismo di pensiero.
La dipendenza tecnologica genera anche sovraccarico cognitivo: bombardati da flussi continui di informazioni processate dall’AI, rischiamo l’affaticamento mentale, con impatti negativi su attenzione, memoria e capacità di sintesi. Il cervello umano, con la sua capacità di elaborazione limitata, fatica a gestire l’iperconnessione informativa che l’AI ci propone costantemente.
Ma la neuroplasticità è dalla nostra parte (per fortuna)
Eppure, la scienza offre anche motivi per essere ottimisti. Il cervello umano possiede una caratteristica straordinaria: la neuroplasticità, ovvero la capacità di adattarsi e riorganizzarsi in risposta a nuove esperienze. Studi neuroscientifici dimostrano che l’uso della tecnologia può avere effetti sia positivi che negativi. Se usata consapevolmente, l’AI può potenziare le nostre capacità cognitive piuttosto che ridurle.
La chiave sta nell’approccio. Lo stesso studio del MIT ha rivelato un dato fondamentale: chi aveva già sviluppato solide competenze autonome riusciva a potenziare ulteriormente le proprie capacità cognitive utilizzando ChatGPT. In altre parole, l’AI diventa uno strumento di amplificazione per chi possiede già una base cognitiva robusta, mentre rappresenta un rischio per chi vi si affida passivamente fin dall’inizio.
Le competenze insostituibili: il valore umano nell’era AI
Va anche considerato che la comparsa dell’intelligenza artificiale sta aumentando il valore delle competenze più autenticamente umane. Il Future of Jobs Report 2025 del World Economic Forum, infatti, identifica come cruciali proprio quelle capacità che l’AI non può replicare: pensiero analitico e critico, creatività, resilienza, intelligenza emotiva, empatia, leadership, capacità di gestire il cambiamento.
Nel mercato del lavoro italiano, questa tendenza è già evidente. Le soft skills rappresentano oggi tra il 34 per cento e il 50 per cento delle competenze richieste per le professioni di medio-alto livello. Aziende e recruiter cercano professionisti capaci di pensiero divergente, di comprendere contesti complessi, di gestire relazioni interpersonali, di prendere decisioni etiche. Tutte competenze che richiedono quella profondità cognitiva ed emotiva che nessun algoritmo può sostituire.
L’intelligenza “centaurica”: umani e AI insieme
La prospettiva più realistica non è né l’apocalisse cognitiva né l’utopia tecnologica, ma un’ibridazione intelligente. Gli esperti parlano di “intelligenza centaurica”: la fusione strategica tra capacità umane e potenzialità dell’AI. Come i centauri della mitologia combinavano forza umana e animale, i professionisti del futuro dovranno saper combinare intuizione umana e potenza computazionale.
Questo richiede lo sviluppo di nuove competenze: l’AI literacy (saper comprendere come funziona l’intelligenza artificiale), il prompt engineering (saper formulare richieste efficaci agli strumenti AI), il pensiero critico digitale (saper valutare e verificare i contenuti generati dall’AI). Ma soprattutto richiede consapevolezza: sapere quando affidarsi all’AI e quando invece è essenziale l’elaborazione autonoma.
Come evitare di diventare cognitivamente più deboli
Le strategie di mitigazione del rischio sono chiare. Gli esperti raccomandano di definire limiti all’utilizzo dell’AI, alternando compiti delegati a momenti di elaborazione autonoma. Fondamentale è mantenere attive le “palestre cognitive”: continuare a leggere testi complessi, scrivere senza supporti digitali, risolvere problemi senza ricorrere immediatamente alla soluzione pronta, coltivare hobby che richiedono creatività e pensiero critico.
Nel contesto manageriale italiano, questo significa formare i team non solo sull’uso degli strumenti AI, ma anche sulla loro gestione consapevole. Significa promuovere una cultura aziendale che valorizzi il pensiero profondo accanto all’efficienza tecnologica. Significa investire in formazione continua che mantenga vive le competenze cognitive anche mentre le amplifichiamo con la tecnologia.
La risposta: non diventeremo (necessariamente) stupidi, ma potremmo diventarlo
Quindi, diventeremo tutti stupidi? La risposta è: dipende da noi. L’intelligenza artificiale non è né salvifica né distruttiva per natura. È uno strumento potentissimo che amplifica le nostre scelte. Un uso passivo, acritico e dipendente dell’AI può effettivamente generare un impoverimento cognitivo. Ma un uso consapevole, strategico e bilanciato può invece potenziare le nostre capacità. La paura è realistica, ma evitabile. Il futuro non appartiene a chi rinuncia all’AI per paura della dipendenza, né a chi vi si abbandona ciecamente. Appartiene a chi saprà mantenere viva la propria intelligenza critica mentre usa l’intelligenza artificiale come leva di amplificazione. Diventeremo più stupidi solo se scegliamo di smettere di pensare.


