Dimissioni per fatti concludenti: quando la semplificazione diventa abuso
di Claudio Garau
C’è sempre una distanza, talvolta abissale, tra la teoria del diritto e la sua applicazione concreta. Tra concetti, talvolta anche di una logica trasparente e comprensibile anche ai non addetti ai lavori, e la vita di tutti i giorni.
La legge n. 203 del 13 dicembre 2024 - il “Collegato lavoro” - ne offre oggi una nuova plastica dimostrazione. Nata con l’obiettivo di contrastare gli abusi legati alla Naspi e semplificare la gestione dei rapporti di lavoro interrotti, sta producendo anche effetti opposti e inattesi, che dovrebbero indurre il legislatore a interrogarsi sulla tenuta complessiva del nuovo sistema delle dimissioni per fatti concludenti.
L’istituto è disciplinato con una certa puntualità dall’articolo 26, comma 7-bis del D. Lgs. 151/2015 ma, come nei giorni scorsi segnalato dalla Cisl Milano nel suo sito web, sta diventando il paradossale strumento di una nuova ondata di licenziamenti mascherati che, secondo i sindacati, rischia di lasciare centinaia o forse migliaia di lavoratori, senza occupazione e senza sussidio.
Facciamo un passo indietro. Indubbiamente, la norma in oggetto è nata con buone intenzioni, nella volontà del legislatore di introdurre - finalmente - una logica di efficienza: colmare un vuoto procedurale e consentire al datore di chiudere formalmente rapporti ormai “abbandonati”, ma tali da celare pratiche elusive, come quelle dei dipendenti che si dimettevano “di fatto”, per poi farsi assumere e licenziare rapidamente da datori compiacenti, accedendo all’indennità di disoccupazione.
Il meccanismo della norma in vigore dallo scorso gennaio è semplice e lineare: se un lavoratore si assenta ingiustificatamente per più di 15 giorni (o il diverso termine del Ccnl), il datore può comunicare all’Ispettorato territoriale del lavoro l’intenzione di considerare quell’assenza una manifestazione implicita di dimissioni, evitando di avviare la procedura disciplinare.
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