La circostanza che la riforma delle sanzioni si vada ad inscrivere all’interno di un nuovo modello di rapporto Fisco – Contribuente giustifica la deroga al favor e anche al principio di proporzionalità.
Le argomentazioni con cui la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1274/2025, ha salvato l’efficacia solo pro futuro della riforma attuata con il DLgs 87/2024 appaiono davvero forzate e artificiose.
Uno dei punti maggiormente critici della riforma attuata con il DLgs 87/2024, nella parte non penale, è la sua efficacia solo a decorrere dalle violazioni commesse dal primo settembre 2024. Al riguardo, sono state sollevate plurime contestazioni.
Vediamo di riepilogarle in ordine più o meno sparso:
a) la violazione della delega. In un contesto di legge delega improntato ad un maggiore rispetto del principio di proporzionalità – come si avrà modo di rimarcare più avanti -, in assenza di una espressa autorizzazione del “delegante”, non vi è spazio per il legislatore delegato per introdurre una deroga al favor che, oltre a rivelarsi in contraddizione con il principio ispiratore, si pone in termini di eccezione rispetto alla disciplina naturale della modifica dell’entità edittale delle sanzioni;
b) la violazione del principio di proporzionalità, quantomeno per la materia dei tributi armonizzati. Posto che è pacifico che il principio in esame, in ambito sanzionatorio, essendo contenuto nell’articolo 49 della Carta di Nizza, è di diretta applicazione negli ordinamenti interni, anche in deroga a eventuali disposizioni contrarie nella normativa nazionale, è evidente che non appare compatibile con esso la previsione che differisce al futuro una revisione che dichiara di conformarsi al principio medesimo;
c) la disparità di trattamento rispetto alle sanzioni penali. È oramai acclarato che, in forza dei principi unionali, le nostre sanzioni amministrative devono essere equiparate alle sanzioni penali, stante il loro indiscutibile carattere di afflittività. Ne deriva che non vi è motivo che possa legittimare una disciplina che preveda la retroattività per le sole sanzioni penali.
Si tratta di tre ordini di ragioni talmente forti che quando, in occasioni pubbliche, autorevoli esponenti della compagine governativa hanno dovuto spiegare le ragioni della deroga al favor, è stato fatto riferimento alla mancanza di copertura finanziaria, sollevata dalla Ragioneria dello Stato.
Erano pertanto molto attese le considerazioni della Cassazione sul punto che, secondo il pronostico di buona parte degli interpreti, se avesse voluto salvare la deroga al favor avrebbe dovuto operare un richiamo al criterio del pareggio di bilancio, ex articolo 81 della Costituzione.
Si comprenderà quindi il disorientamento generato tra gli operatori dalla lettura della citata sentenza n. 1274/2025 del giudice di legittimità, che al contrario non ha nemmeno ritenuto di dover approfondire i rapporti con il su richiamato articolo 81.
La Cassazione spende buona parte del suo percorso argomentativo per dimostrare che la deroga al favor, sia nella sua declinazione di “abolitio criminis” – successiva abrogazione della condotta illecita -, sia nella sua declinazione di lex mitior – successiva riduzione dell’entità edittale della sanzione, ammette eccezioni legislative. Si tratta però di statuizione, in astratto, abbastanza condivisa in dottrina e giurisprudenza. Ciò che occorreva dimostrare è che nella specie ricorrevano effettivamente le condizioni necessarie per derogare al favor.
Al riguardo, la Corte sostiene che la deroga sarebbe giustificata dal fatto che la stessa si inscrive in una riforma di ampio respiro che segnerebbe una soluzione di continuità rispetto al passato, tale da legittimarne l’applicazione differita. Per suffragare tale enunciazione, la Corte richiama l’adempimento collaborativo, la possibilità di compensare le sanzioni con crediti certificati verso la pubblica amministrazione e la valorizzazione della condotta del contribuente che traspare dal potenziamento di istituti quali il ravvedimento e la recidiva (anche se su questo punto la sentenza non appare chiarissima, perché manca l’indicazione della lettera di riferimento dell’articolo 20 della legge 111/2023). Ora, non è difficile replicare che nessuno dei richiami operati dalla Corta appare irresistibile. L’adempimento collaborativo è un regime, per definizione, per pochi, che si caratterizza dalla “disclosure” anticipata da parte del contribuente che giustifica la riduzione o l’annullamento dell’impatto sanzionatorio, in alcun modo ostensibile alla ben più vasta platea dei contribuenti che a tale disclosure anticipata non aderisce. Anche la compensazione del debito per sanzioni con crediti certificati, al di là del fatto che esso attiene ad un aspetto davvero secondario della disciplina sanzionatoria, altro non è se non una estensione di un istituto già operante da tempo, attraverso gli articoli 28 quater e 28 quinquies, DPR 602/1973. Considerazioni analoghe possono svolgersi con riferimento al potenziamento del ravvedimento e della recidiva che certamente non sono sintomo “di uno spirito radicalmente rivoluzionato rispetto al passato” (così la Cassazione in esame) ed anzi si pongono in linea di chiara continuità con il pregresso.
A ben vedere, in realtà, ciò che hanno in comune gli interventi della delega tanto con riferimento al ravvedimento e alla recidiva quanto con riguardo alla attenuazione dell’entità delle sanzioni, lasciando da parte dunque l’adempimento collaborativo e la compensazione delle sanzioni con crediti verso la PA, è né più né meno che l’applicazione del principio di proporzionalità che richiede, tra l’altro, l’adeguamento della sanzione alla specifica condotta del trasgressore. Ma è ovvio che questa è una conclusione che la Corte non intendeva affermare.
E vi è di più. Se davvero l’impianto della riforma si connota per un nuovo rapporto tra Fisco e contribuente, nell’ambito del quale la reazione sanzionatoria dell’ordinamento diventa residuale (si pensi in realtà anche al concordato preventivo biennale), ci si sarebbe dovuto aspettare, tutt’al contrario, un inasprimento delle sanzioni per i soggetti che rompono il patto con il Fisco. Così non è stato, con la conseguenza, davvero difficilmente revocabile in dubbio, che la riduzione generalizzata delle sanzioni non appare in alcun modo ascrivibile ad una mutazione dei rapporti Fisco – contribuente.
Va da sé che l’inconsistenza della giustificazione rappresentata dal presunto nuovo contesto delineato dalla delega porta con sé l’illegittimità della deroga al favor anche sotto il profilo del rispetto dei criteri di delegazione.
Una notazione finale. La vera riforma innovativa è stata quella del 1997, in cui si è passati da un regime sanzionatorio ancora per certi versi ancorato ad una concezione risarcitoria o para civilistica della pena (si pensi alla soprattassa) ad una marcatamente penalistica, che peraltro viene ulteriormente ribadita – e non certo innovata - con l’attuazione riforma. Eppure, ciò non ha impedito al legislatore di confermare l’applicazione del favor, con una scelta che è apparsa ai più pienamente coerente con il contesto legislativo. Insomma, l’ennesima occasione persa per fare ordine in una materia che ne avrebbe tanto bisogno.