DELITTI TRIBUTARI - Le investigazioni del Dott. Massimo Rinaldi: "Crediti di sangue" - secondo episodio
di Nereo Seppia
Dopo aver lasciato l’appartamento di via Lombroso, Rinaldi guidò senza meta per quasi un’ora. Il cielo era lo stesso blocco grigio di quando era arrivato, ma ora sembrava più basso, come se la notte volesse chiudere il sipario su qualcosa di indecifrabile. Rientrato finalmente a casa non riuscì a chiudere occhio. Nella testa una guerra tra i ricordi e il timore di dettagli non visti o forse sopravvalutati: riconosceva di essere alle volte troppo fantasioso e di lasciarsi prendere la mano nel tentativo di una ricostruzione della verità a ogni costo, che non è sempre detto sia una buona cosa. Non sempre la verità è unica, anzi, quasi mai. Nel silenzio della notte si rincorrevano i passi segnati dalle note di Albinoni, dal dipinto di Rosai, dall’annotazione normativa riguardante la compensazione di crediti inesistenti, dall’assenza di Cleo. Assenza che non c’entrava nulla con l’omicidio, ma che c’entrava molto con la morte della sua anima. Una morte che durava da così tanto tempo da non lasciare intravedere alcuna forma di resurrezione. Chiuse gli occhi, un po’ per focalizzare i dettagli, un po’ per sperare di precipitare in un sonno profondo. Nessuna delle due cose accadde.
Inutile insistere, scese dal letto alle 6, si fece una doccia e mise la giacca spigata grigia che tanto gli piaceva. Un colore che sentiva molto vicino al suo umore e a quella notte da dimenticare. Alle 6.30 decise di andare a fare colazione al bar vicino allo studio, da Angelo e Dino. Solito cornetto crema e amarena e solito caffè, tanto al colesterolo ci avrebbe pensato il giorno seguente, come da dieci anni a quella parte.
Il tempo quella mattina sembrava dilatarsi come il polistirene utilizzato in edilizia. Sembrava non passare mai, almeno sino alle 11. Fece ingresso presso gli Uffici dell’Agenzia delle Entrate di via Masaccio, ma stavolta non come delegato di uno dei suoi clienti. Aveva ottenuto, grazie all’ispettore Sassi e all’autorizzazione del Magistrato inquirente, l’accesso straordinario ai fascicoli personali del dottor Luigi Saccà.
Fu lì che, dopo una prima inconcludente ora di analisi dei documenti più recenti, trovò una cartellina rossa. All’interno la pratica di una società informatica intestata a un certo Carlo Salvemini. Una nota scritta a penna, con una grafia nervosa, diceva: “Deceduto nel 2024 – approfondire. Possibile errore istruttorio? Rimedio?”. “Rimedio”, una parola che solitamente non si scrive alla leggera, specie in certi contesti.
Rinaldi si ricordò di quel nome. Salvemini si era tolto la vita a seguito di un atto di recupero per utilizzo di crediti ritenuti inesistenti, con risvolti anche penali per superamento della soglia prevista dal comma 2 dell’articolo 10-quater del decreto legislativo 74 del 2000. Si trattava di un caso borderline, una di quelle situazioni in cui il confine tra non spettanza e inesistenza è sottile più della carta velina: un credito d’imposta ricerca e sviluppo contestato dall’Amministrazione finanziaria pur in assenza delle specifiche competenze tecniche necessarie per valutare appieno il contesto agevolativo. Dal 2015 in poi migliaia di imprese si erano trovate di fronte a contestazioni di quel tipo e, all’epoca dei fatti, la stampa ne aveva parlato diffusamente come di un ennesimo suicidio silenzioso. Paolo, il figlio di Salvemini, aveva scritto una lettera pubblica, inviata all’indirizzo anche del Capo dello Stato: “Mio padre non era un criminale. Era un cittadino perbene, travolto da un sistema che non conosce il peso delle parole quando le scrive. Era un uomo che ha creduto nello Stato fino all’ultimo, anche quando lo Stato aveva già smesso di credere in lui”. Rinaldi, ricordando quelle parole, sentì un nodo stringersi in gola.
Chiamò subito Sassi. Si trovarono nel suo ufficio, ancora ingombro di fascicoli e tazze di caffè. Ne bevvero uno insieme. Il secondo della giornata per Rinaldi, ma ne sentiva il bisogno.
«Antonio, forse ho trovato il collegamento. Paolo Salvemini. Figlio di un uomo morto suicida in seguito a un atto di recupero gestito da Saccà. E guarda caso, l’ultima nota del funzionario è un supplemento di analisi istruttoria. Forse aveva intenzione di riqualificare l’indebito utilizzo, magari attraverso un provvedimento di autotutela sostitutiva». Sassi annuì lentamente: «E quel quadro? E la musica?». Rinaldi rispose: «Sono messaggi. Ma anche richieste. Il quadro rappresenta la speranza spezzata. Il disco... beh, c’è di più». Ne parlarono a lungo e poi uscirono insieme dalla Questura. Sassi direzione casa, dalla moglie e dai figli. Rinaldi direzione casa.
Quella sera, Massimo accese il giradischi. Aveva voglia di qualcosa che parlasse al cuore. Scelse un vecchio vinile del 1959, “Vedrai, vedrai”. Il suo piccolo salotto, arredato con gusto e con colori marcatamente maschili, fu subito riempito dalla voce tenebrosa e malinconica di Luigi Tenco:
“Vedrai, vedrai
Vedrai che cambierà
forse non sarà domani
ma un bel giorno cambierà
Vedrai, vedrai
Non son finito, sai
Non so dirti come e quando
Ma vedrai che cambierà”.
Le parole lo colpirono come un pugno allo stomaco sferrato da un peso welter. Pensò a Salvemini e a Saccà. Al tentativo, forse tardivo, di cambiare il corso degli eventi. All’angoscia dell’oltre. Al bisogno disperato di un domani che potesse riscrivere il passato. Indugiò su quelle parole di Tenco e sulle riflessioni che ne erano seguite, soffermandosi sul fatto che in realtà sembravano adatte anche a sé stesso. Aprì una bottiglia di cognac, riempì un bicchiere e bevve come fosse acqua di fonte. Era pressoché astemio, ma aveva bisogno di stordirsi e di evitare di passare un’altra notte insonne inseguito nel giardino della solitudine da rimorsi e da ricordi.
Il giorno seguente Salvemini fu convocato. Non si oppose. Entrò in Questura con passo confuso, un abito scuro, il volto stanco. Disse di aver incontrato Saccà, sì. Disse di avergli chiesto prima del suicidio di rivedere il caso del padre, sì. Ma null’altro. Tutto con estremo distacco, come se ogni frase fosse frutto di una lunga preparazione mentale o di un disorientamento difficile da interpretare.
Sassi provò allora a incalzarlo: «Paolo, sappiamo che eri in via Lombroso. La cella che ha agganciato il tuo dispositivo mobile ti colloca lì la sera dell’omicidio alle 20:47. Il delitto è avvenuto intorno alle 21». Mentre Sassi guidava l’interrogatorio, Rinaldi analizzava il cellulare sequestrato. Una applicazione di collezionismo musicale attirò la sua attenzione: Vinyl Collector. Tra gli album preferiti figurava una ristampa italiana dell’Adagio di Albinoni. La stessa trovata sulla scena del crimine. Mandò un messaggio all’amico ispettore che era nella sala degli interrogatori. Sassi fornì quell’ulteriore indizio al sospettato.
Il ragazzo abbassò lo sguardo. Un attimo di silenzio, poi la voce si fece quasi un sussurro: «L’ho portato io, il disco. Era di mio padre. Lo ascoltava nei momenti più difficili. Lo lasciava suonare quando pensava di non farcela. Ho pensato… ho pensato che fosse giusto che lo sentisse anche lui, Saccà. Che capisse che a volte dietro quei numeri c’è una vita che si spezza». La confessione era piena. L’arma, una piccola pistola Beretta 950, era stata comprata al mercato nero con il numero di matricola cancellato e poi buttata nella bocca di lupo di un marciapiede non lontano dall’abitazione della vittima. Non restava che recuperare l’arma e fare la prova dello stub sul reo confesso.
Paolo fu arrestato quella sera stessa. In cella, parlò ancora. Non si difese. «Non volevo giustizia. Volevo solo che qualcuno sentisse il rumore che fa un uomo quando crolla. Volevo che capissero. Lui aveva cercato di rimediare, lo so. Ma era troppo tardi. Era inutile. Mio padre, nel frattempo, aveva scelto e anche io a quel punto ho scelto. Avevo già costruito tutto: il quadro di Rossati, il foglio, la musica. Era la mia lettera di dolore, ma per mio padre in fondo non è cambiato nulla», continuando con una serie di frasi sconnesse che ormai denotavano un profondo stato confusionale, a non voler azzardare altre ipotesi di natura psicologica. Forse incominciava a rendersi conto della follia che aveva guidato la sua mano. La violenza, come vendetta, è l’eco del dolore che non ha ancora imparato a parlare e porta con sé solo altra colpa. Paolo aveva cercato di farsi giustizia a modo suo, ma sembrava precipitato in un abisso ancora più profondo di quello che avrebbe voluto colmare.
Rinaldi quella sera uscì dalla Questura con le spalle curve. Salì in macchina, ma non accese subito il motore. Nella sua testa Tenco cantava ancora.
Rientrò a casa e si sedette accanto alla finestra. Guardò fuori. Le luci della città sembravano tremolanti nell’aria carica di umidità che profumava di salsedine. Pensò al quadro, a quella curva cieca. Forse non tutte le curve sono pericolose, magari lo sono solo apparentemente. Alcune servono a rallentare. Altre a cambiare direzione. Ma ci vuole tempo. Tempo e coraggio. E qualcuno che abbia voglia di rimanere accanto per dire “vedrai, vedrai”, anche quando non ci crede più nemmeno lui. Ma c’era qualcosa che non gli tornava, che non quadrava e che non riusciva ad afferrare.
Quella sera si addormentò e sognò Cleo. Il solito sogno. Lei che gli porge la mano e lui che si allontana sparendo in mezzo alla gente. Questa volta però Cleo sussurrava qualcosa: “Massimo, la verità sa celarsi come un volto tra le maschere del Carnevale di Venezia: è lì, in mezzo alla folla, ma riconoscerla è un'arte sottile che richiede occhi attenti e un cuore paziente”.
Si svegliò prima dell’alba, con quella strana sensazione che spesso anticipa qualcosa che ancora non ha un nome. Accese la lampada, si alzò e cominciò a riordinare gli appunti del caso. Il faldone Salvemini era sul tavolo, aperto. Gli occhi gli caddero su una nota in larga parte indecifrabile presente sul retro della cartellina rossa contenete il fascicolo di Salvemini. La grafia non sembrava però essere quella di Saccà. Un nome annotato lo aveva colpito: “T. Serra”. Non un nome qualsiasi. Tommaso Serra, magistrato della Corte di Cassazione, sezione tributaria. Rinaldi aggrottò la fronte. L’annotazione portava la data dell’otto novembre, tre giorni prima della morte di Saccà. E indicava l’invio di documentazione riservata da un indirizzo privato, non istituzionale. Un passaggio fuori protocollo, anomalo.
Riannodò mentalmente il nastro dell’interrogatorio di Paolo Salvemini e saltò dalla sedia. Prese il telefono e girò su whatsapp a Sassi la foto che aveva fatto a quell’annotazione. Inviò il file con un messaggio: «Antonio, forse abbiamo sbagliato. Anzi, ho sbagliato. Abbiamo aperto solo la prima scatola. Ce n’è un’altra, più grande. Riascolta anche l’interrogatorio di Salvemini…». Non passarono neanche venti minuti che Sassi lo chiamò. La voce era tesa, sconvolta: «Massimo… Hai sentito il notiziario? Tommaso Serra è stato trovato morto, questa notte. A Roma. Apparente suicidio. Ma… non convince nessuno».
Un lungo silenzio si insinuò tra i due. Poi Rinaldi, con un filo di voce: «Antonio, non è finita, la verità ha solo cambiato maschera».
Seguirà il terzo e ultimo episodio
«Fatti e personaggi narrati sono frutto di fantasia. Ogni riferimento a situazioni e persone reali è puramente casuale»
Primo episodio: DELITTI TRIBUTARI - Le investigazioni del Dott. Massimo Rinaldi: "Crediti di sangue"