DELITTI TRIBUTARI - Le investigazioni del Dott. Massimo Rinaldi: "Crediti di sangue" - terzo e ultimo episodio
di Nereo Seppia
Non riusciva a smettere di fissare la cartellina sulla quale era appuntato il nome del giudice Serra. Sentiva di essere stato troppo frettoloso, ma forse anche troppo narcisista nel volersi prendere il merito della ricostruzione della verità. Una verità rivelatasi però falsa. Anzi, con molta probabilità artatamente falsata. I sensi di colpa erano sempre stati i suoi migliori compagni di viaggio, ne aveva già a sufficienza e non voleva di certo che lo diventasse anche Paolo Salvemini, reo confesso di un omicidio che magari non aveva commesso affatto.
Si fece il secondo caffè della giornata. La signora che abitava al piano inferiore trovava quel modo di sbattere l’imbuto della caffettiera nella pattumiera per farne cadere la precedente posa una specie di saluto mattutino. Un rito, un’abitudine che a Rinaldi ricordava sua madre. Gli sembrava quasi di tenerla ancora in vita. Bastasse così poco. Ne era consapevole, ma spesso ci aggrappiamo a spicchi di luce che entrano dalle finestre illuminando certi oggetti in modo del tutto inaspettato o al sentore di un profumo tanto flebile quanto identico a quello di una persona amata. Particolari, dettagli e sensazioni che ci fanno sentire la morte lontana dalla nostra vita e dalla quotidianità nella quale cerchiamo in ogni modo di affogarne la silente presenza. Bevve il caffè. Una doccia calda lavò via, almeno momentaneamente, i pensieri che si erano aperti in quella mattinata difficile, che Cleo aveva preannunciato nel sogno.
Già, quel sogno, fatto appena poco prima del risveglio. Secondo una credenza medievale, i sogni mattutini sarebbero più veritieri di quelli notturni. Così, anche per Dante Alighieri - “Ma se presso al mattin del ver si sogna, tu sentirai, di qua da picciol tempo, di quel che Prato, non ch'altri, t'agogna” (Inferno, Canto 26) - i sogni sono spesso legati a eventi che si verificano durante la notte e che prefigurano qualcosa di importante nel corso della giornata successiva. I sogni, nella Divina Commedia, non sono solo eventi casuali, ma anche strumenti per la conoscenza e la comprensione della realtà. Attraverso i sogni, Dante può anticipare gli eventi che si verificheranno in seguito e comprendere meglio la sua condizione e il suo percorso. Queste le riflessioni che giocavano a nascondino nella testa di Rinaldi mentre, seduto alla scrivania del suo studio, scriveva le memorie per un accertamento con adesione il cui primo contraddittorio si sarebbe tenuto il giorno successivo.
Erano passate poco più di ventiquattro ore dall’arresto di Salvemini e quel sogno non usciva proprio dalla testa del commercialista. Ma non usciva dalla sua testa neanche la musica che aveva fatto da tappeto musicale alle parole di Cleo:
I am the eye in the sky
Looking at you
I can read your mind
I am the maker of rules
Dealing with fools
I can cheat you blind
And I don't need to see any more to know that
I can read your mind (looking at you)
Si trattava di “Eye in the Sky”, magnifico brano del 1982 degli Alan Parsons Project, canzone che fa in qualche modo riferimento al romanzo “1984” di George Orwell, nel quale si racconta di un possibile futuro in cui la privacy individuale cede il passo al controllo totale degli uomini da parte del Grande Fratello e dove gli stessi sono costantemente monitorati attraverso un sistema di video-sorveglianza. Eric Woolfson, autore del brano e cantante del gruppo, passando molto tempo fra casinò e centri commerciali, era rimasto affascinato dai sistemi di sicurezza e dalle telecamere nascoste, facendosi quindi venire l'ispirazione dell'occhio nel cielo.
Smise di scrivere le memorie. Restò immobile per alcuni secondi che gli sembrarono minuti. Chiamò Sassi: «Antonio, buongiorno, avete per caso controllato se davanti all’abitazione di Saccà ci siano telecamere di sorveglianza pubbliche o anche private?». La risposta dell’ispettore fu immediata e senza incertezze: «Ciao, Massimo. Sì, abbiamo controllato, ma purtroppo nulla, non ci sono telecamere. Ti avrei chiamato io tra qualche minuto. Salvemini ha passato una notte difficile. Gli abbiamo chiesto se conoscesse il giudice Tommaso Serra, ma ha detto di no. Ritengo sia verosimile. Non ha ritrattato la confessione, ma è in uno stato sempre più confusionale. Abbiamo chiamato un medico perché sembra sempre meno presente a sé stesso. Ti stavo chiamando anche perché la prova dello stub ha dato esito negativo… o non ha sparato lui o è riuscito a ripulirsi come neanche un killer di professione sarebbe riuscito a fare». Silenzio tra i due. Poi Rinaldi: «Antonio, la bocca di lupo… controlla se ci sono telecamere nei pressi del luogo dove è stata gettata e ritrovata la pistola utilizzata per l’omicidio di Saccà». Sassi rimase sorpreso, però effettivamente poteva essere una buona idea: «Va bene, Massimo, provvedo subito, non so come non ci ho pensato subito. Cioè lo so. Quella confessione ha anestetizzato il senso critico del necessario approfondimento dell’intero quadro probatorio. Vabbè… mangiamo un boccone insieme per pranzo?».
Era una osteria modesta, di quelle dove l’esasperato senso estetico delle portate lascia giustamente spazio alla genuinità casareccia delle preparazioni. Insomma, un posto dove sembra di mangiare a casa della propria nonna. Lagane e ceci per entrambi. Rinaldi sentiva la necessità di condividere con l’amico la genesi di quella intuizione, un po’ per alleviare la coscienza dell’ispettore nel non aver approfondito alcuni potenziali elementi di conferma della confessione di Salvemini, un po’ per la necessità di condividere il suo turbamento: «Sai, Antonio, è stata Cleo a farmi capire che bisognava guardare altrove», gli raccontò così del sogno, delle maschere, del Carnevale di Venezia, della canzone “Eye in the Sky” di sottofondo. Stava ancora parlando e descrivendo quando entrò a gamba tesa Sassi: «Massimo, Massimo, Massimo… basta… Cleo non c’è più da tempo. Basta. Non tormentarti. Non è Cleo che ha parlato attraverso il sogno, ma il tuo acuto subconscio che non dorme mai, neanche quando tu pensi sia così. Basta», si pentì un attimo dopo di quelle parole, forse troppo brusche, ma non era mai stato un campione di tatto. Rinaldi annuì, non era contento di quelle parole, ma aveva necessità che qualcuno lo riportasse alla realtà ed è per questo che aveva avvertito l’impulso di condividere quei pensieri con un amico sincero. Ruvido talvolta, ma sincero.
Mentre stavano completando il pranzo con un ottimo tiramisù (un altro po’ di caffè ci voleva proprio), Sassi ricevette una telefonata dalla Questura. Una telecamera di sorveglianza di un istituto bancario aveva ripreso il momento in cui la Beretta era stata occultata. Il video era stato già visionato e non lasciava dubbi, aveva necessità di ulteriori elaborazioni per poter definire meglio i volti dei due soggetti. Uno presumibilmente era Paolo Salvemini, ma non era solo. Questo adesso era un fatto certo, ma chi poteva essere l’altro era il dilemma da risolvere: «Massimo, se non riusciamo a definire meglio i volti e se Paolo non comincia a dire tutta la verità, saremo in un vicolo cieco. I colleghi di Roma mi hanno inviato un rapporto dettagliato sull’omicidio del giudice Serra. Non ci sono indizi rilevanti. Nulla di simile, per intenderci, a quanto ritrovato sulla scena del crimine di Saccà. Strangolamento. Serra è stato colto di sorpresa alle spalle e strangolato».
Rinaldi era rimasto tutto il tempo in silenzio ad ascoltare e a riflettere: «Antonio, sembrava tutto così chiaro… e invece. La chiave comunque è Paolo. Credo che abbia qualche problema, immagino te ne sia accorto. Ha confessato qualcosa che non ha commesso. Certo era lì, ma non è stato lui. Hai riascoltato l’interrogatorio? A un certo punto Salvemini dice “Avevo già costruito tutto: il quadro di Rossati, il foglio, la musica”… “Rossati”… Paolo non sa neanche chi sia quel pittore, che infatti si chiama Rosai, Ottone Rosai. Il medico è già andato in carcere? È stato visitato il ragazzo?».
Dopo pranzo andarono insieme in Questura. Schizofrenia era la prima diagnosi, con deficit neurocognitivi globali aggravati da depressione cronica. Insomma, un quadro clinico complicatissimo. Era stato ascoltato anche il medico di base. Paolo da anni soffriva di quella patologia, ma la situazione era precipitata con il suicidio del padre. Aveva forse smesso di seguire la terapia che gli aveva prescritto il neuropsicologo dal quale era in cura da quando era adolescente. Anzi, era il caso che la riprendesse subito, specie nell’attuale situazione di restrizione della propria libertà personale. Lorenzo Petralia era il nome del suo psicoterapeuta. Concordarono che sarebbero andati insieme la mattina seguente a fargli visita nel suo studio privato.
Si era fatta sera. Rinaldi rientrò a casa. Si mise a scrivere le memorie, doveva completarle perché l’indomani pomeriggio aveva appuntamento presso l’Agenzia delle Entrate. Si risvegliò a notte fonda, con la testa appoggiata sulla scrivania, a causa di un cane che abbaiava al mondo e al forte vento che ogni tanto faceva dire trentatre alle persiane chiuse. Nella testa aveva ancora il caso Saccà e Serra, ma decise di migrare dalla sedia al letto. L’appuntamento nello studio di Petralia era alle nove.
Un appartamento elegante, nel centro della città, non lontanissimo da via Lombroso. La segretaria li fece accomodare in una sala d’attesa arredata in stile liberty. Alle pareti quadri, illustrazioni e grafiche di Mario Borgoni, Aleardo Terzi, Adolfo De Carolis. Sassi osservava Rinaldi che passeggiava lungo il perimetro della stanza, intento ad analizzare tutto ciò che era appeso alle pareti. Gli si avvicinò e con un mezzo sorriso bisbigliò a un orecchio: «Certo che se fossero veri ci vorrebbe una guardia giurata all’ingresso dello studio!». Rinaldi sorrise, forse più per quello che stava per dire che per la presunta battuta dell’amico ispettore: «Antonio, altro che guardia giurata, qui non basta l’intera Squadra Mobile… sono tutte opere autentiche di artisti di punta del movimento Art Nouveau».
Dopo cinque minuti di attesa, la segretaria li condusse dal dottor Petralia. Un uomo sulla sessantina, magro, molto alto, calvo, con baffi che ricordavano lo stile di Francesco Giuseppe I d’Austria. Una figura che suscitava un certo timore o che, quantomeno, risultava poco rassicurante. Quasi un ossimoro rispetto alla professione esercitata. Parlarono a lungo. Petralia confermò che Paolo Salvemini era in cura da lui da anni. Lo avevano portato i genitori quando era appena adolescente, con la manifestazione dei primi segni di quella che poi si era rivelata essere una grave forme di schizofrenia paranoide. Doveva assolutamente seguire una terapia farmacologica quotidiana. Il medico si offrì di andare in carcere a trovarlo, caldeggiando peraltro la necessità di un suo urgente trasferimento in una clinica. Propose un centro specializzato di servizio psichiatrico di diagnosi e cura fuori città, dove lui era il primario. Sembrava estremamente sicuro di sé. Professionale al punto da sembrare sibariticamente compiaciuto del proprio modo di esprimersi e di rapportarsi agli altri.
In quei minuti di colloquio, nei quali parlò prevalentemente Petralia, sembrò quasi che Rinaldi avesse assunto lui il ruolo di terapeuta e il vero terapeuta quello di paziente. Mentre ascoltava si guardava intorno. La stanza privata del medico era altrettanto lussuosa come la sala d’attesa. Sotto la pesante scrivania in noce in stile Giorgio III un ampio tappeto Isfahan. Alle spalle una libreria terra-cielo ricolma di volumi sistemati anche in doppia fila come auto nel centro di una grande città. E ancora dipinti di tutte le epoche. Pittori italiani in prevalenza, da Carlo Carrà a Giacomo Balla, passando da Michelangelo Pistoletto a Umberto Boccioni. Rinaldi rimase però colpito da un vuoto sulla parete alla sua destra, dal lato opposto delle ampie finestre arredate da lunghe tende di pesante velluto blu. Un quadro rimosso aveva lasciato il segno sul muro. Un’opera di medie dimensioni. Quell’assenza non sfuggì neanche all’ispettore Sassi. I due ex compagni di liceo si scambiarono uno sguardo d’intesa senza però dire niente. Petralia si congedò con una stretta di mano misurata: «Fatemi sapere, potrei occuparmi personalmente del trasferimento di Paolo. Ne ha bisogno, urgentemente!».
Usciti dallo studio, Sassi e Rinaldi scesero le scale in silenzio. L’atmosfera era cambiata. C’era qualcosa di strano, un’inquietudine alla quale era difficile dare un nome. Una volta fuori, Rinaldi si fermò un attimo prima di salire in macchina. Guardò Sassi: «Antonio… tu ci credi davvero che Paolo abbia costruito tutta quella messinscena da solo?». L’ispettore non rispose subito. Poi: «No. Non più». Massimo allora insistette: «E se Petralia sapesse più di quanto dice?». Sassi strinse gli occhi, pensieroso: «Intendi il quadro mancante?». Rinaldi annuì: «Sì. E il fatto che Paolo abbia scelto proprio quella rappresentazione iconografica, così complessa. Il quadro di Ottone Rosai. Non è da lui. Lo abbiamo visto: non ne conosceva nemmeno il nome».
Sassi si grattò il mento: «Vuoi dire che qualcuno ha costruito tutto… per incastrarlo?». La conclusione a quel punto sembrava scontata, ma parlarne aiutava a schiarire meglio le tante idee che affollavano la mente: «Antonio, o con lui, ma da dietro le quinte. Un regista. Uno che sa esattamente quali corde toccare, quali immagini evocare, quali citazioni usare per costruire una sceneggiatura perfetta… quasi teatrale». Sassi sbuffò: «E chi meglio di uno psichiatra narcisista, appassionato d’arte e con una collezione da museo privato?».
Quel pomeriggio Rinaldi, dopo il contraddittorio presso l’Agenzia delle Entrate, non tornò in studio. Fece una deviazione all’Ordine dei medici, dove non risultavano procedimenti disciplinari a carico del terapeuta, e poi all’archivio della biblioteca civica. Era alla disperata ricerca di documentazione, articoli, tracce, qualsiasi cosa. Petralia aveva pubblicato un saggio tre anni prima: "Estetica della malattia: la forma simbolica della psicosi". Sfogliò le prime pagine. Un passaggio, sottolineato da qualche lettore precedente, lo bloccò: “Vi sono casi in cui il delirio diventa la forma estrema di verità, il grido che nessuno vuole ascoltare. Se adeguatamente incanalato, può farsi arte. Persino giustizia”. Non era però certamente una prova da portare in tribunale, anche se il cuore gli si fermò per un attimo.
Anche quella notte Rinaldi non dormì. Ricordò il sogno. Cleo. Le maschere del Carnevale di Venezia. E si chiese, per la prima volta, se la voce di Cleo non fosse stata davvero la sua… o quella di qualcun altro che stava cercando di guidarlo per fare cadere l’ultima maschera di quella folle rappresentazione omicida.
La mattina chiamò un suo amico gallerista chiedendogli la cortesia di informarsi presso l’archivio ufficiale di Rosai se tra i proprietari censiti nei loro registri ci fosse un tale Lorenzo Petralia. Tutto però gli appariva più chiaro adesso. Aveva solo necessità di conferme. Di conferme e di un movente diverso dalla crudeltà di un medico verso un proprio paziente. Ci doveva essere necessariamente un altro motivo. Tornò nell’ufficio di Saccà, forte ancora dell’autorizzazione da parte della Questura e del Magistrato inquirente a visionare i fascicoli del funzionario ucciso. Stava quasi rinunciando quando estrasse una cartellina con sopra due lettere “L.P.”.
Si trattava di una vicenda che aveva riguardato diversi medici, dentisti in prevalenza, ma anche psicologi e psichiatri, che utilizzavano un gestionale capace di contabilizzare i proventi in “nero” in un’area nascosta e accessibile solo attraverso il tasto F12 della tastiera. Una sezione segreta del software, progettato da un ingegnere informatico, che consentiva di tenere comunque traccia degli incassi occultati e non dichiarati. Una operazione della Guardia di Finanza che aveva portato complessivamente al sequestro di oltre cinque milioni di euro per evasione fiscale. A carico di Petralia, sul fronte amministrativo, un accertamento induttivo puro, effettuato ai sensi dell’articolo 39, secondo comma, del Dpr 600/1973, dal lato penale, un procedimento per il reato di infedele dichiarazione in base all’articolo 4 della Legge 74/2000, che pendeva in Corte d’Appello dopo la condanna in primo grado. La vicenda tributaria era invece approdata già in Cassazione dopo i due gradi di merito nei quali il medico era risultato soccombente. Petralia, preoccupato dalla eventuale condanna anche in sede di legittimità, era venuto a conoscenza dell’amicizia tra Saccà e Serra e aveva evidentemente fatto pressione sul funzionario affinché influenzasse in qualche modo il giudice tributario. Un tentativo caduto nel vuoto che lo aveva spinto a disegnare un piano criminale, nel quale non si era fatto scrupolo di coinvolgere e di manipolare psicologicamente un ragazzo indifeso e malato.
Arrivarono anche le altre conferme. L’amico gallerista di Rinaldi comunicò che nell’archivio generale di Rosai risultava che Lorenzo Petralia fosse effettivamente proprietario di un quadro dell’artista. Non quello rappresentato sulla rivista lasciata a casa di Saccà, ma comunque un’opera molto rara e preziosa di un pittore non conosciuto da tutti. L’elaborazione delle immagini riprese dalla videocamera di sorveglianza dell’istituto bancario lasciavano pochi dubbi. C’era Petralia accanto a Paolo. Del resto, quei baffi così particolari non erano di certo una espressione estetica così diffusa.
Prima di sera, con un decreto d’urgenza firmato dal PM, la Squadra Mobile perquisì l’abitazione di Petralia. Nella sua camera da letto, chiuso in un armadio a doppia anta, c’era il quadro staccato dalla parete, con una piccola nota sul retro, manoscritta in grafia sottile: “La verità è una composizione. Il dolore una partitura. Ma la giustizia è solo un’esecuzione”.
Massimo Rinaldi rientrò in studio. Si fermò davanti alla finestra, guardando la città illuminata dal basso, mentre le nuvole correvano come pensieri troppo veloci per essere afferrati.
La verità non è solo quella che si dice, ma quella che si scopre sotto le maschere, pensò.
Poi prese la sua stilografica e scrisse sul primo foglio bianco davanti a sé: “Una verità può iniziare da un errore. Ma deve finire con una scelta. La mia è continuare a cercarla, anche quando fa male”.
Spense la luce. E lasciò che fosse il silenzio a raccontare il resto.
«Fatti e personaggi narrati sono frutto di fantasia. Ogni riferimento a situazioni e persone reali è puramente casuale»
Primo episodio: DELITTI TRIBUTARI - Le investigazioni del Dott. Massimo Rinaldi: "Crediti di sangue"
Secondo episodio: DELITTI TRIBUTARI - Le investigazioni del Dott. Massimo Rinaldi: "Crediti di sangue"