DELITTI TRIBUTARI - Le investigazioni del Dott. Massimo Rinaldi: "Quando si spengono le lucciole"
di Nereo Seppia
Ricevere una telefonata nel cuore della notte non è mai un’esperienza priva di turbamento, almeno sino a quando dall’altra parte del telefono una voce impastata di gioia e tranquillità ti dice: «Dottor Rinaldi, sono Barbara, la caposala dell’ospedale, perdoni l’orario… ma mi aveva detto di chiamarla se ci fossero state delle novità… ci sono… si è svegliato… parla… anche troppo… ha chiesto di vedere… beh ecco… di vedere la bassottina… Arianna». Dopo un attimo di silenzio, Massimo esplose in una risata fragorosa, a rischio di svegliare tutti i pazienti del reparto, «Allora sta bene. È tornato lo stesso idiota di sempre! Lo rassicuri e gli dica che domattina porto Arianna a fargli visita. Grazie Barbara, grazie davvero». Quella notte dormì profondamente, come ormai non gli succedeva da oltre un mese, ovvero da quel dannato agguato al porto.
La riabilitazione polmonare e respiratoria richiese tempo e pazienza, ma alla fine l’ispettore Sassi si riprese pienamente. Dopo circa tre mesi di ospedale fu dimesso e passarono solo un paio di settimane per fargli riprendere il lavoro in Questura, nonostante i consigli di rimanere ancora a riposo per qualche tempo.
Lo trovarono all’alba, tra due auto parcheggiate male e un cassonetto dell’umido che traboccava di resti del sabato sera. Il corpo della donna era accasciato sul marciapiede, il trucco sciolto, le gambe piegate come una marionetta dimenticata a metà spettacolo.
Sopra il torace, fissato con una graffetta da ufficio, un foglio A4 stampato, carattere Times New Roman, dimensione dodici. Il commissario Antonio Sassi si sporse, lesse e sbuffò. Aveva già richiesto il consueto aiuto dell’amico Rinaldi: «Massimo, ti prego, dimmi che almeno tu ci capisci qualcosa». Il commercialista si chinò accanto al cadavere, tenendo lontano il soprabito dal sangue. Lesse attentamente: “Imposta evasa al fisco e al giudizio di Dio”. Attaccata al foglio un’immaginetta sacra. Il volto di un Cristo stanco e sul retro un timbro, quello della Parrocchia San Giovanni della Croce.
Massimo si passò una mano sui capelli, come se cercasse nella frangia scomposta una risposta:
«Chiunque l’abbia scritto mi pare evidente abbia un’avversione fiscale e morale nei confronti della prostituzione». Sassi lo guardò storto: «Massimo, io vedo solo una donna morta e un pazzo che scrive frasi sconnesse su un cadavere. Tu cosa vedi? Fammi capire». Rinaldi, atteso che era già stata acquisita l’identità della vittima, rispose senza esitazione: «Antonio, io vedo uno squilibrato, perché ho pochi dubbi sul fatto che sia un uomo, che non sopporta che i redditi delle prostitute sfuggano alla tassazione. Deve avere qualche “trauma” tributario e religioso al contempo… almeno credo». Sassi lo ascoltava attentamente, mentre gli agenti scattavano foto, il medico legale raccoglieva i primi elementi di prova e il nastro giallo tremava nel vento emettendo ogni tanto un sibilo. Rinaldi spiegò, con dovizia illustrativa, quanto fosse controverso l’esatto inquadramento reddituale dei proventi ritratti dall’attività di meretricio. Anni di contrapposizione della dottrina, della prassi e della giurisprudenza. Audizioni parlamentati e tentativi legislativi di provare a “regolarizzare” giuridicamente e fiscalmente il lavoro delle prostitute, tutti naufragati in un nulla di fatto. L’introduzione, a decorrere dal 2025, di uno specifico codice attività per tutti i sex worker si è posta nella prospettiva di provare a risolvere una questione rispetto alla quale per anni si sono avvitate le attività accertative dell’Agenzia delle Entrate.
Dopo l’ampia ricostruzione di Rinaldi, Sassi sospirò esausto: «Massimo, sono contento di non avere fatto il commercialista, non ti invidio affatto!».
La sera successiva, la chiesa di San Giovanni della Croce, vicina al luogo del delitto, era quasi vuota. Due candele tremavano sul lato destro dell’altare, il resto era in assoluta penombra. Il parroco, don Alberto, era ancora nel confessionale quando lo sportello di legno si aprì bruscamente e un uomo con la voce profonda: «Padre, è da un po’ che volevo venire qui dal lei».
«Da quanto tempo non ti confessi, figlio mio».
«Diciamo da quando ho iniziato a distinguere il bene dal male, quindi da quando ero molto piccolo».
Don Alberto aveva percepito una profonda desolazione in quelle parole, socchiuse gli occhi: «Va bene, parlami dei tuoi peccati».
Silenzio. Poi la voce dell’uomo: «Ho ucciso una donna. Una prostituta».
Il parroco non si mosse di un millimetro, trattenne il respiro per qualche istante. Sperava di avere capito male, ma l’uomo continuò: «Non ha mai dichiarato nulla. Solo menzogne su menzogne. Io ho provato a spiegarle quanto fosse ingiusto il suo lavoro e che anche il corpo, quando diventa reddito, entra nel perimetro tributario. Lei ha riso. Ha riso di me, delle mie parole, dei miei princìpi. Ha detto ridendo “se vuoi una ricevuta te la scrivo col rossetto sulla schiena”. Non ha capito nulla di quello che le stavo spiegando. Non avevo scelta… ho dovuto ucciderla».
«Figlio mio…», il parroco non riusciva a trovare altre parole in quel momento.
«L’ho seguita. Pioggia, marciapiede, una zona che lei chiamava “ufficio”. L’ho guardata entrare in macchina. All’uscita ho regolato le cose. Ora non pecca e non evade più». La voce non tremava. Neanche un graffio di colpa. Nessun pentimento. Non voleva essere assolto, perché dal suo punto di vista non c’era alcun peccato per cui chiedere l’assoluzione.
Don Alberto era immobilizzato, un misto di angoscia e terrore gli stringeva la gola: «Perché sei venuto qui da me?».
L’uomo senza incertezze: «Per essere sicuro che qualcuno lo sapesse. E per verificare una cosa».
«Cosa?», chiese don Alberto.
«Fin dove arriva il segreto del confessionale», rispose l’omicida.
Il prete stringeva il rosario in tasca. Sentì il metallo della croce imprimersi nel palmo della mano:
«Non posso rivelare nulla. Mai. In caso contrario, rischierei la scomunica».
«Lo so», disse l’uomo, «volevo solo sentirglielo dire».
Don Alberto ebbe la sensazione di aver riconosciuto quella timbrica. Quel modo di parlare. Quell’accento. Gli pareva di averlo già sentito qualche volta in parrocchia, forse durante un incontro sulle donazioni alla parrocchia. Una catechesi fiscale che gli era sembrata assolutamente gelida. Gli venne spontaneo sussurrare: «Continuerai?», sperando di svegliarsi da un incubo.
«Sì, finché ci sarà chi vende il proprio corpo, finché sarà sfregiata la legalità a vantaggio del peccato. Padre, sto lasciando degli indizi perfetti, gravi, precisi e concordanti. Basterà seguirli per arrivare a lei, mio caro Alberto Serrano».
Lo sportello del confessionale si chiuse all’improvviso e con vigore. Don Alberto rimase al buio, il silenzio della chiesa era anche il suo silenzio, sentiva la colpa addensarsi nel legno segnato dai tarli e un inspiegabile senso di impotenza gli opprimeva il petto. Si precipitò fuori dal confessionale, ma l’uomo era già uscito dalla chiesa.
Ventiquattro ore dopo l’omicidio, Rinaldi andò a fare un giro nella sede della Direzione provinciale dell’Agenzia delle Entrate. Un palazzo grigio, con il linoleum consumato nei corridoi e l’odore di vecchi faldoni mischiato a caffè bruciato su fornellini improvvisati nelle sale d’archivio.
Non era un luogo dove Massimo amava andare volentieri, nonostante la sua professione ne imponesse una frequentazione obbligata. Ma Sassi lo aveva pregato di “dare un’occhiata, fare due chiacchiere, così, en passant”. Anche perché le indagini dovevano pure partire provando ad accendere una scintilla da qualche parte.
Lo accolse una funzionaria cortese e solare, tailleur blu e sorriso professionale:
«Il direttore è in riunione, ma, se vuole parlare con qualcuno dell’area accertamento, il dottor Esposito può riceverla qualche minuto. Proviamo a vedere se non è impegnato. Prego, l’accompagno».
Il dottor Esposito aveva una faccia che sembrava disegnata da un algoritmo che genera impiegati medi. Un uomo di circa cinquant’anni. Occhiali sottili, cravatta anonima, capelli già rassegnati al diradamento. Si alzò, tese la mano con un garbo studiato: «Lei è il dottor Rinaldi. Il famoso dottore commercialista che aiuta la polizia nei casi complicati». Ricevendo in risposta un serafico: «Diciamo che provo a non peggiorarli».
Esposito sorrise appena e poi cominciò a parlare come un fiume in piena: «Sì, dunque, il direttore mi ha anticipato qualcosa. Una… prostituta, mi pare. Un biglietto con vaghi riferimenti all’evasione fiscale. Sa che qui qualcuno ha trovato la cosa quasi divertente. Qualcun altro si è chiesto se non sia l’occasione per riaprire il tema della fiscalità delle prestazioni di quei servizi. Sì, quella roba lì… insomma, mi ha capito. Sa… adesso ci stiamo muovendo molto anche per accertare coloro che utilizzano certe piattaforme per adulti e, in generale, un po’ tutta la nutrita schiera degli influencer e dei creatori di contenuti… diciamo così…».
Massimo lo fissava, mentre Esposito parlava lentamente, scegliendo le parole come se fossero commi e alla fine il funzionario ribaltò il contraddittorio: «Dottor Rinaldi… lei invece che ne pensa? Si sarà pur fatto una sua idea». Rinaldi fu secco: «Penso che quando un corpo è a terra non è mai un buon momento per disquisire di filosofia tributaria». Un lampo, sottile, passò negli occhi di Esposito: «Capisco. Però, lasciando da parte il tema morale perché non è questa la sede per disquisirne, ammetterà che dal punto di vista della giustizia…», ma non riuscì a completare la frase perché Rinaldi lo interruppe: «Non confondiamo la giustizia con il fisco… sono due religioni diverse. E, a proposito di religione, Dio di certo non notifica avvisi di accertamento o di morte. Men che meno alle prostitute, basti pensare a Maria Maddalena…». Esposito a quel punto sembrò davvero molto infastidito, tagliò corto, interrompendolo e dicendo che non aveva altro tempo da dedicare alla vicenda.
Uscendo, Massimo aveva in testa solo due cose. La prima: Esposito sembrava conoscere molto bene la vicenda, per essere semplicemente aggiornato dal direttore o dai giornali. La seconda: il modo ruvido con cui aveva detto “prestazioni di quei servizi”. Ma di certo non poteva bastare per costruire un sospetto. Altrimenti si sarebbe potuta arrestare mezza palazzina.
Il secondo corpo venne trovato in un sottopasso tre giorni dopo il primo omicidio, odore di urina e birra, il neon rotto che lampeggiava come un monitor in tilt. La donna giaceva accanto a una colonna, il collo girato con un angolo innaturale. Stretto nella mano destra uno scontrino strappato, emesso da un bar della zona, riportava il pagamento di un caffè, di una mezza minerale e di un panino. Sul muro, sopra il cadavere, qualcuno aveva scritto con uno spray nero “La sanzione del 120 per cento è stata applicata dalla mano di Dio”.
Sassi fece un cenno a Massimo, con la faccia di uno che ha appena visto il proprio peggior incubo fiscale trasformarsi in un genere letterario. A pochi metri ancora la stessa immaginetta sacra abbandonata in mezzo a un cumulo di rifiuti. Massimo guardava ancora il muro. Quelle righe avevano un ritmo quasi liturgico. Il killer stava mescolando ancora religione, morale e tributario in un’unica messa nera.
«Dai, andiamo dal parroco di questa chiesa», disse piano Sassi a Rinaldi.
Don Alberto, un uomo sulla settantina, tremava leggermente, ma la sua voce restava ferma: «Non so nulla. Le immaginette sono lì all’ingresso, appena prima della navata principale. Chiunque può entrare e prenderle. Non posso aiutarvi. Lo capite, credo».
«Capisco che qualcuno sta usando la sua parrocchia e il suo nome per decorare cadaveri», replicò Sassi, «e che lei sa molto più di quanto ci dice».
Il prete deglutì. Massimo lo osservò in silenzio. Si vedeva che non era un uomo abituato a mentire, ma era abituato a tacere perché costretto dall’abito talare.
«Ci sono cose», mormorò don Alberto, «che non appartengono più a me. Sono sigillate. Non posso neanche suggerirle. Non posso nemmeno dire ciò che non è stato detto o fatto. Il silenzio qui non è scelta. È forma stessa del sacramento».
«Sacramento un corno», esplose Sassi, «qui qualcuno gioca con voi e con noi. La sta incastrando!».
«Può essere», rispose il prete, e in quelle due parole c’era una rassegnata stanchezza, «ma se infrango il segreto, non salvo nessuno. Mi perdo e basta».
Massimo, fino a quel momento era rimasto in silenzio, decise di intervenire: «Padre, non le chiederò nulla su ciò che sa o che può avere ascoltato. So che non posso. Le chiedo solo questo… c’è tra i suoi parrocchiani qualcuno che conosce molto bene il linguaggio dei tributi?».
Don Alberto lo fissò. Per un attimo nei suoi occhi passò qualcosa di vicino al terrore:
«Qui, in parrocchia, vengono in molti», balbettò, «imprenditori, professionisti come lei, artigiani, insegnanti… Non è… non è che…», si interruppe.
Era come guardare un uomo che sta per dire un nome e si morde la lingua a metà sillaba. Massimo capì. Il prete non avrebbe potuto confermare neanche un’ipotesi. Ma quella paura per lui era già una risposta. Si avvicinò al parroco, gli strinse appena il braccio e disse piano: «Bene, allora facciamo senza di lei. Ma sappia che proveremo a liberarla da questo peso».
Uscendo, Sassi strinse i pugni nervosamente: «Massimo, fammi capire, esattamente come dovremmo liberarlo dal vincolo del segreto confessionale? Magari gli facciamo recapitare in parrocchia un modello Unico in bianco e vediamo chi lo compila?». Massimo camminava piano sul sagrato: «No. Facciamo quello che facciamo sempre. Seguiamo i soldi».
«Quali soldi?», chiese Sassi.
«I redditi che non si dichiarano, le basi imponibili che lo ossessionano, le imposte che non si pagano. Proviamo a ragionare anche su quello scontrino strappato nella mano della vittima. Sai cosa può voler dire?».
«Che aveva sete?», sorrise l’ispettore.
«Anche, ma fondamentalmente che frequenta gli stessi luoghi delle prostitute, dove magari prendono un caffè. Significa che osserva da vicino, che studia e che ha familiarità con i concetti che scrive sui muri».
«Ovvero?», insistette il padrone di Arianna, «Stai dicendo che è un dipendente dell’Agenzia delle Entrate?».
«Non lo so, sto dicendo solo che non è un improvvisato, che quando parla di mani di Dio in realtà si sente lui lo strumento della redistribuzione morale e della contribuzione progressiva di ciascuno alle spese dello Stato».
Il terzo omicidio non tardò ad arrivare. Ormai la città viveva con la sensazione che ogni vicolo potesse diventare la scena di un crimine, con un pazzo che andava in giro a spegnere le lucciole e un sottofondo musicale che sembrava “I’ve seen that face before (Libertango)” di Grace Jones.
Questa volta il corpo era stato lasciato vicino a un parcheggio multipiano. La stessa immaginetta sacra con il solito timbro della Parrocchia San Giovanni della Croce, questa volta nervosamente accartocciata e lasciata nella bocca della povera vittima. Un particolare, quest’ultimo, che decisero di non rilevare alla stampa. Con il solito spray nero, per terra, accanto alla vittima, la scritta “Nemmeno chi vende l’anima al dettaglio si sottrae alle imposte”. Massimo si accovacciò pietosamente accanto alla donna, sentendo in gola il sapore metallico della notte: «Antonio, sai cosa mi manca? Il salto logico. Lui presume che noi sospettiamo il parroco. Lo vuole incastrare. Ma allo stesso tempo ci provoca sul terreno fiscale. Un terreno che non è certamente quello di don Alberto. È come se volesse essere scoperto da qualcuno in grado di parlare la sua stessa lingua».
«Quindi da te, Massimo», osservò Sassi.
«O da uno come me», rispose.
L’ispettore lo guardò: «Allora devi tornare in Agenzia».
Il direttore questa volta lo ricevette. Ufficio ampio, bandiera italiana in un angolo, diploma incorniciato nell’altro: «Buon giorno, siamo sconvolti anche noi», disse con tono preconfezionato, «Questo criminale utilizza concetti tributari in modo distorto, quasi blasfemo. Ci tengo a sottolineare la totale collaborazione dell’Agenzia con gli organi inquirenti».
Massimo annuì, si era abituato negli anni a quel tipo di linguaggio con il quale non si dice mai nulla di pericoloso: «Va bene, grazie, mi servirebbe un elenco di funzionari che si occupano in particolare di accertamento induttivo nel settore delle prestazioni sessuali a pagamento».
Un lieve irrigidimento del direttore: «È una richiesta molto delicata, lei capisce bene che…».
«Lo so. Ma è più delicato il collo di una donna spezzato sotto un sottopasso. Lei che ne pensa?», sbottò Rinaldi.
Ci fu una pausa. Poi il direttore cedette: «Abbiamo una specifica unità che studia le posizioni cosiddette atipiche, compreso anche il tema… che lei sa».
«La prostituzione», disse Massimo, stanco dei giri di parole.
«Preferisco parlare di servizi alla persona», borbottò il direttore, «e in quella unità è inserito, tra gli altri, il dottor Esposito… che credo peraltro lei abbia già conosciuto».
«Sì. L’ho conosciuto. Ha un bellissimo accento napoletano, anche se prova a nasconderlo», osservò Rinaldi. Il direttore lo corresse, inconsapevole di fornire una informazione utilissima: «No, non è napoletano, è di Salerno, meglio di Vietri sul Mare».
Uscendo dall’ufficio, Massimo sentiva nella tasca il peso del foglio con l’elenco dei nomi. Solo quattro persone, incluso Esposito. Mentalmente ripercorse ogni parola che quell’uomo gli aveva rivolto nel primo incontro: “Occasione per riaprire il tema della fiscalità di quei servizi”. Il lampo negli occhi quando aveva parlato della prostituzione come di un settore di attività da accertare.
Fu in quel momento che realizzò la cosa più importante. Ad Esposito non dava fastidio lo spazio bianco sulle dichiarazioni dei redditi, la base imponibile che sfugge al fisco. La sua vera ossessione erano probabilmente le prostitute come persone, come donne. Sembrava odiarle e, se così era, la questione fiscale poteva essere solo una sorta di intima giustificazione per i suoi crimini, per la sua fame omicida. Chiese a Sassi di fare un’indagine sul dottor Esposito.
La Questura si attivò. Esposito è uno dei cognomi più diffusi in Campania. In cima alla scala del vicolo di via Scialli a Vietri sul Mare si trovava la ruota dei trovatelli, anche detta degli esposti. Esposito, appunto, era stato lasciato lì, ai piedi di quella ruota cementata decenni prima, da una donna che non era nelle condizioni di potersi prendere cura di lui.
Sassi, per non lasciare nulla di intentato, fece fare un controllo anche su padre Alberto. Saltò fuori un particolare inquietante. Serrano aveva frequentato l’ex Seminario Regionale Pio XI a Salerno, entrato in funzione sotto l’arcivescovo Nicola Monterisi nel 1933 e poi venduto sul finire degli anni Settanta al Comune per mancanza di seminaristi.
Improvvisamente i pezzi di un puzzle privo di senso sembravano potersi incastrare con precisione millimetrica. Potevano però essere anche solo banali coincidenze. Comunque, strane coincidenze.
Sassi, Rinaldi e Arianna andarono in chiesa da don Alberto. Non fu facile per il parroco parlare del proprio passato, ma almeno quello era libero di farlo. Sì, appena prima di entrare in Seminario, aveva avuto una breve storia con una ragazza che faceva la prostituta. Ne era follemente innamorato. Maria, così si chiamava, rimase incinta. Era lui il padre, ma la ragazza gli disse che voleva abortire. Maria sparì dalla sua vita e lui decise di farsi prete. Quell’esperienza lo aveva segnato profondamente.
Sassi e Rinaldi rimasero in silenzio, come se don Alberto stesse dicendo messa. La ricostruzione di Sassi lo sconvolse, mentre Arianna lo guardava con tutta la dolcezza che probabilmente il giovane Alberto avrebbe saputo dare a quel figlio e alla madre. Una madre che però non aveva avuto il coraggio di abortire. Aveva preferito immaginare per suo figlio un futuro migliore tanto del proprio passato quanto del proprio presente.
Esposito aveva evidentemente scoperto il suo passato senza identità, la sua storia infelice, l’esistenza di un padre e di una madre che non l’avevano voluto.
Il gestore del bar che aveva emesso lo scontrino trovato strappato nella mano della seconda vittima l’aveva riconosciuto: «Sì, nella foto è meno stempiato, ma è lui. Viene qui spesso. Consuma qualcosa restando seduto per ore a quel tavolino in fondo al locale. Un tipo solitario. Osserva, scrive non so cosa. È lui, ne sono certo».
Rinaldi lo trovò in archivio, tra scaffali di cartone e faldoni numerati. Esposito stava sfogliando un fascicolo, era da solo, le maniche della camicia arrotolate. Sassi rimase fuori dall’edificio con la sua squadra, pronto a intervenire.
«Dottor Rinaldi, la cercano spesso ultimamente», disse Esposito voltandosi.
«Succede quando la materia imponibile diventa una causa di morte», rispose il commercialista.
Esposito sorrise appena: «Facile battuta. Ma tecnicamente la morte è già imponibile da sempre. Successioni, imposte indirette… il passaggio di stato è uno degli eventi fiscalmente più rilevanti che esistano».
Massimo lo fissò: «Già. Però finora nessuno aveva pensato di redigere un processo verbale sul marciapiede prima dell’autopsia».
Silenzio. Un fruscio di carta. Esposito chiuse il fascicolo con cura maniacale.
«Le dà fastidio che qualcuno abbia usato il suo linguaggio?», continuò Massimo, «O le dà fastidio che l’abbia usato così bene?».
«Non capisco dove voglia arrivare», il funzionario si irrigidì.
«Io sì. Lei ha un problema con le cose che non entrano in nessuna casella. Le prostitute per lei non sono persone. Sono falle nel gettito. Ma soprattutto ne è ossessionato».
Gli occhi di Esposito si fecero sottili: «Dottore, lei scambia il dovere per ossessione».
«No, si sbaglia. Scambio l’ossessione per movente. Anche se il suo vero movente è l’odio. Lei è andato in parrocchia, vero? È entrato in quel confessionale. Ha confessato tutto a don Alberto!».
Esposito sorrise, ma il sorriso non arrivò agli occhi: «Guardi, anche ammesso che sia vero, il prete non potrà mai dirlo».
«Nessuno dei due ha bisogno di dire nulla, né il padre né il figlio» intervenne perentoria una voce alle loro spalle. Era Sassi. Preoccupato per l’amico, visti i recenti precedenti, aveva deciso di raggiungere Rinaldi nell’edificio. Era appoggiato a uno scaffale, più stanco che minaccioso: «Quando si lascia la stessa immaginetta sacra su due cadaveri e poi al terzo omicidio si smette, non è un caso. È un messaggio spostato».
«Al terzo omicidio l’immaginetta era nella bocca della prostituta» replicò Esposito, troppo in fretta.
La trappola aveva funzionato, Sassi subito replicò: «Molto bene! Questo particolare non l’abbiamo mai dato alla stampa. Solo chi era sulla scena o chi c’era prima del reparto scientifico poteva saperlo. Assassino incluso… ovviamente!»
«Dottor Esposito, la dichiaro in arresto!», gridò l’ispettore visibilmente soddisfatto, mentre Rinaldi guardava il funzionario, pensando al futuro che, in qualche modo, Maria aveva voluto dare a quel figlio e che invece, a un certo punto della propria vita, Esposito aveva deciso di buttare nel cesso.
Mentre lo portavano via, Esposito sussurrò una frase: «È stato bello sentirsi chiamare “figlio mio” almeno per una volta».
Quella sera i due amici, Antonio e Massimo, dopo tanto tempo, si ritrovarono finalmente a cena insieme. Lagane e ceci, ovviamente. Un buon bicchiere di vino rosso parlando dei tempi del liceo, mentre Arianna, scodinzolante per quella reunion tanto attesa, mangiava i suoi croccantini al salmone.
Il telefono vibrò. Un messaggio di don Alberto sul cellulare di Sassi.
«Massimo, il prete ti ringrazia. Dice che pregherà per suo figlio e per te. Io no, al massimo ti offro la cena!», disse ridendo. Massimo sorrise. Arianna pure.
«Fatti e personaggi narrati sono frutto di fantasia. Ogni riferimento a situazioni, animali e persone reali è puramente casuale»



